Sembra che ci siano due Alessandro Buongiorno. Quello in campo ha la faccia da duro, questo che si racconta al Mattino ha gli occhi liquidi da ragazzino che gioca alla Playstation, duella con gli scacchi, si concentra con diabolici rompicapo e ha un puzzle sul tavolo che lo attende al ritorno da ogni allenamento.
E che ha una sola paura: «Smettere di essere il ragazzo normale che sono ora». Stregato da Napoli, incantato da Conte, ammirato da De Laurentiis, la nuova roccia azzurra si racconta e racconta il Napoli che sogna lo scudetto.
Anema e core, che significa secondo lei?
«Dare tutto per la maglia, mettere tutto noi stessi in quello che facciamo, ogni giorno. La passione dei tifosi e il loro sostegno fanno parte del connubio perfetto, sono tutti pezzi dello stesso ingranaggio. Che deve funzionare alla perfezione».
La coreografia di domenica del Maradona l’ha emozionata?
«Mi ha fatto battere il cuore anche quando l’ho rivista, la sera alla tv. L’ennesimo esempio dell’amore dei napoletani che io avverto dal primo giorno in cui sono arrivato in questa città».
Da torinese, cosa l’ha stregata di più di Napoli?
«Mi trovo meravigliosamente, sono affascinato dalla gente, dal cibo, dal clima, dal calore delle persone. Poi qui ho parenti, perché i miei nonni sono di Cardito e quindi nel mio destino, forse, c’era già scritto che avrei dovuto indossare questa maglia. Ogni giorno che passa mi trovo meglio: le persone ti danno forza in maniera costante».
Sono i nonni che l’hanno accompagnata per anni agli allenamenti nelle giovanili del Toro?
«Sì, come fanno tante famiglie. Ma quando andavo a scuola, fino alle superiori, ho vissuti stando praticamente sempre con loro visto che i miei genitori lavoravano».
Lo sgarro culinario che fa?
«La pasta e patate con la provola. Ne vado matto. È il regalo che mi concedo quando so che me lo sono meritato».
La più grande differenza tra i suoi giorni a Torino e questi napoletani?
«Lì potevo girare più tranquillamente, andare in un bar. Qui la passione è travolgente, non riesci a fare un passo. Ma è tutto bellissimo. D’altronde, non è che hai tutte queste forze per uscire dopo che hai fatto un allenamento il pomeriggio».
E quindi che fa?
«Resto a casa, faccio i puzzle. Ora ne ho uno di 1500 pezzi, quello del Tower Bridge di Londra. Poi gioco a scacchi, mi concentro con i rompicapo. E mi piacciono i giochi investigativi: appena posso scappo con Meret, Simeone e Raspadori a fare una escape room».
Buongiorno e l’avversario che affronta domenica a Venezia (probabilmente, Oristanio) quando inizia a studiarlo?
«Iniziamo oggi con i video, poi mi prendo dei momenti alla fine della settimana, mi faccio inviare dallo staff il materiale che mi serve. Mi piace studiare anche il modo con cui gli attaccanti vengono serviti».
Dice Cannavaro che lei è uno dei pochi, rari, casi di difensore italiano che fiuta il pericolo.
«Se lo dice uno dei miei miti, non posso che esserne orgoglioso: da bambino vedevo lui, Nesta e Maldini come si muovevano in campo e provavo poi a imitarli. Mi ispiro a loro anche adesso. Vero, cerco di stare “attento”. Il difensore deve essere pessimista nella marcatura, pensare che il suo avversario può fare delle cose strepitose ogni volta».
Lei è pessimista anche nella vita?
«No, no. Fuori dal campo sono ottimista».
Perché è dal 2006 che un difensore non vince il Pallone d’oro?
«Perché ci si concentra sempre su quelli che i gol li fanno».
Venezia è un altro crocevia?
«L’orario delle 12,30 è ostico, ma dobbiamo arrivare concentrati, con lo spirito che ci ha sempre contraddistinto. Gara dura, lo sappiamo. Ma siamo pronti».
Come descrive questo Napoli che sogna e fa sognare lo scudetto?
«È un Napoli che ha un grande spirito, dove ognuno si mette a disposizione dei compagni, si sacrifica per l’altro. E dove tutti hanno voglia di mettersi in gioco, in discussione. E non ce ne sta uno che non sia pronto a migliorarsi».
Il difensore di Conte cosa fa?
«Deve difendere, impostare. Quest’anno abbiamo cambiato tanti moduli ma il mister ci ha insegnato i vari movimenti da fare, nei minimi dettagli. Per lui è importante che il difensore si adatti alle situazioni: deve saper scivolare sulla linea difensiva, marcare a uomo…e noi siamo pronti a tutto».
Ma lei cosa preferisce, la difesa a tre o a quattro?
«Io ho giocato da braccetto, da centrale, a tre a quattro. Ho capito che l’unica cosa che conta e che fa la differenza è l’applicazione».
Con Fiorentina e Inter era più a centrocampo che nella sua area, a dire il vero.
«Abbiamo cercato di andarli a pressare a uomo, e quindi abbiamo avuto un baricentro molto alto. E questo ci ha consentito di recuperare tanti palloni. Ovviamente più vicino è alla porta il pallone recuperato, più aumentano le possibilità di fare gol…Ma quello che conta è la grande collaborazione che c’è tra tutti noi».
Alessandro, il suo primo ricordo di un pallone da bambino?
«Alle elementari, io facevo nuoto ma decisi di seguire i compagni di classe all’allenamento di calcio. Volevo stare con loro. Poiché ero il più alto di tutti mi misero in porta. Ma durai poco: mia madre diceva che prendevo troppo freddo a stare fermo e l’allenatore fu costretto a spostarmi più avanti».
Le mamme sono sempre le mamme.
«Ancora adesso mi chiama e mi dice di stare attento. A ogni cosa. Non si cresce mai per loro. Anche se adesso vivo da solo, nella mia casa di Posillipo».
Chi è Maradona per questa città?
«La leggenda. Un’icona che ha stravolto tutto negli anni in cui è stato qui, ha cambiato la percezione del calcio in questa città. E quella statua nello spogliatoio dello stadio fa effetto, emoziona, fa venire i brividi».
Lei è stato l’unico non capitano granata a leggere a Superga i nomi degli invincibili del Grande Torino.
«Avere l’onore di pronunciare i 31 nomi scolpiti sulla lapide resta dentro per sempre. L’ho fatto tre volte e anche quelle sono emozioni incredibili, difficili da spiegare.
La prima volta che ha incontrato Conte?
«Per caso. Ma ricordo anche la data esatta. Era il 6 giugno. Il mio compleanno (ride, ndr). Io ero a festeggiare in un locale con gli amici e lui si avvicinò per parlarmi. Ne sono rimasto colpito subito. E da allora abbiamo iniziato a sentirci spesso per parlare del Napoli, a scambiarci messaggi».
L’ha marcata come avrebbe fatto lei, in pratica?
«E non c’è voluto molto per capire che solo per il Napoli avrei potuto lasciare il Toro. Anche il presidente De Laurentiis mi ha subito fatto una grande impressione».
Lei è laureato in Economia aziendale: è affascinato dal modello Napoli?
«L’avere una proprietà italiana non è solo un segno distintivo, ormai, ma è anche un elemento di ulteriore forza al progetto».
Perché ha deciso di andare all’Università?
«Mi sono diplomato al liceo pubblico, tra enormi fatiche perché già giocavo a tempo pieno. Peraltro, pure con un bel voto alla maturità, 86. Allora mi sono preso un anno sabbatico ma in quei mesi di pomeriggi liberi, quando ero a Carpi, mi sembrava di buttare via il mio tempo per giocare alla Playstation. E allora è scattata la molla: anche perché ho notato che grazie allo studio, ai libri, migliorava il mio rendimento e apprendimento sul campo e fuori. Capivo più facilmente le richieste degli allenatori, anticipavo le cose. Ho notato, insomma, che con lo studio riuscivo a essere persino migliore come calciatore. E infatti ogni volta che vengono da me quelli più piccoli a farsi firmare gli autografi gli dico spesso “mi raccomando, divertiti con il calcio ma devi sempre andare bene a scuola. E impegnarti”».
Quelli della vecchia guardia le raccontano cosa significa vincere qui lo scudetto?
«Ogni tanto sì. Sono stati giorni bellissimi, qualche volta capita che qualcuno descriva quella festa incredibile. Ma il calcio non guarda mai indietro, si occupa solo del presente. Conta l’oggi, quello che fai adesso, con il Venezia, non certo quello che hai fatto nel passato».
Chi teme di più, l’Inter o l’Atalanta?
«Sono due squadre molto forti. L’Inter dall’inizio della stagione è partita come favorita, ma anche l’Atalata è ostica. Ma a noi non piace guardare oltre noi stessi, non ci piace vedere gli altri. Ci siamo solo noi».
E allora mi dice un motivo per cui il Napoli può vincere lo scudetto?
«Noi non pensiamo a quello che sarà. Lo abbiamo dimostrato. Una partita alla volta, stiamo mettendo una voglia incredibile in ogni gara. E questo i tifosi ce lo riconoscono sempre, allo stadio ma anche quando li incontriamo per strada. Sanno che ogni volta che usciamo dal campo abbiamo dato il massimo, abbiamo la maglia sudata. Vogliamo continuare a renderli orgogliosi di noi. Fino all’ultimo minuto dell’ultima giornata».
C’è anche la Nazionale per lei. E il sogno di giocare il Mondiale.
«Sì, ora abbiamo la sfida alla Germania a cui teniamo molto. Indossare la maglia dell’Italia è un’altra emozione fantastica ma so che per conquistare un posto devo sempre tenere molto alto il livello delle mie prestazioni con il Napoli».
Spalletti le parla dei suoi anni a Napoli?
«È capitato, si percepisce che è stata una esperienza unica per lui».
Nel calcio l’unica cosa che conta è vincere?
«Beh, diciamo che il risultato è una componente importante, inutile nasconderlo. Poi c’è il miglioramento di squadra, il processo di crescita individuale. E sono cose da cui non si può prescindere».
Mezza Europa vi invidia Conte. Cosa ha di speciale?
«Il suo carisma, la sua duttilità. Riesce sempre a darti la carica, in qualsiasi circostanza, non sbaglia mai il momento, le parole. Poi ha qualità tecniche e tattiche che trasferisce ogni giorno in allenamento».
A quale allenatore deve dire grazie?
«Gli ultimi tre anni a Torino con Juric mi hanno fatto maturare tanto. Ma anche da Giampaolo e Nicola ho appreso cose importanti per diventare quello che sono adesso».
Come avete fatto ad arrivare così in alto?
«Concentrandoci partita per partita. Allenamento per allenamento. Nulla nasce per caso. Abbiamo lavorato tantissimo».
Vero che quando non vincete, la settimana di allenamenti diventa complicata?
«Anche a livello personale è dura, pure per me un pareggio vale come una mezza sconfitta. Poi però passa, bisogna concentrarsi sull’impegno successivo, quindi bisogna subito spostare il focus. Magari è capitato che in alcune momenti ci siano stati degli allenamenti più intensi, però alla fine faccio fatica a capire in quale settimana ci sono allenamenti meno tosti (sorride, ndr)».
Dopo Como, però, Conte si è arrabbiato?
«È stata una lezione importante in vista di queste ultime partite della stagione. Il secondo tempo non è piaciuto a nessuno di noi, eravamo tutti arrabbiati con noi stessi. E abbiamo imparato da quella sconfitta. Ci è servita, come abbiamo dimostrato con Inter e Fiorentina».
Il miglior Buongiorno napoletano in che partita?
«A San Siro, nell’1-1 con l’Inter. Anche allora con Thuram e Lautaro».
L’attaccante da incubo?
«Di forti ce ne sono tanti, da Retegui a Kean che sono con me in Nazionale. Ma l’ansia che mi dava Lukaku non me la dava nessuno. Ogni volta che lo affrontavo con il Torino sapevo che sarebbe stata dura. E quando ci siamo rivisti a Castel Volturno ero contento. Ma devo dire che anche lui lo era al pensiero che non lo avrei dovuto più marcare…»
Che musica ascolta?
«Ho conosciuto Willie Peyote che è stato anche a Sanremo. Mi piace molto ascoltarlo».
Con i social va d’accordo?
«Dal mio profilo si vede che non vado oltre al calcio, se mi connetto lo faccio solo per vedere i gol e qualche azione di partita. La tv la vedo poco, mi piace la Plyastion, i giochi di strategia e di avventura».
Lo sa che Buongiorno è molto forte nella Playstation?
«Sì, lo so. Anche se al calcio gioco poco. Ma me lo dice un mio amico che quelle poche volte che gioca con me, mi costringe a prendere una squadra diversa dal Napoli. Lui vuole gli azzurri, perché “vuole usare me”…».
Come si immagina tra vent’anni?
«Penso che resterò nel mondo del calcio».
Le sue paure fuori dal campo?
«Di perdermi, di smettere di essere me stesso. Si fatica nel mio mondo a vivere in maniera normale, io lo sto facendo. Ci sto riuscendo. Ecco non vorrei che succedesse questo prima o poi, ovvero che io smettessi di essere quello che sono. Perché vorrei continuare a vivere la mia vita con normalità, come sto facendo adesso. Per come sono io».
Un aggettivo del suo Napoli?
«Mi piace dire “cazzuto”, ovvero tenace, determinato. Ecco, non molliamo mai. Questo è il Napoli».
Fonte: Il Mattino