Le prime due lettere del suo cognome sono incastonate in un acronimo che ha segnato un’epoca, brillano come un diamante tra i diamanti, sono il 33,33% di una spremuta che contemplava talento purissimo. Ma.Gi.Ca. Maradona ad aprire la poesia, Careca a chiuderla. E nel mezzo lui, Giordano battezzato Bruno: se cercate un calciatore italiano che abbia riassunto l’armonia del gesto, è il suo nome che dovete googlare.
Nato a Roma, nel 1956. Dirigente e allenatore, commentatore tv, è cresciuto e ha giocato nella Lazio. Poi con Napoli, Ascoli e Bologna. Intervista de La Gazzetta dello Sport:
“Un inno alla gioia del calcio. Irripetibile. C’era tra di noi una connessione speciale, sia umana che tecnica. Avevamo la stessa idea di calcio. Diego era Diego, non serve dire altro, Careca faceva la prima punta, io cercavo di dare equilibrio. Che bellezza, quel Napoli e quegli anni”.
A volerla a Napoli fu Maradona: diceva che parlavate la stessa lingua.
“A Diego mi unisce un destino. Ci conoscemmo nel 1979, all’Olimpico, amichevole tra Italia e Argentina. Mi fece i complimenti. Nel 1983, quando mi ruppi la gamba, Diego giocava a Barcellona e mi mandò un telegramma di pronta guarigione. L’anno dopo ci incrociammo in un Lazio-Napoli, mi prese da parte e mi disse: “Tu devi venire a Napoli, noi due dobbiamo giocare insieme”. Diego e Allodi furono decisivi per il mio trasferimento”.
Chi era Diego Armando Maradona?
“Un amico vero. Ai primi tempi a Napoli, con mia moglie Susanna, nell’attesa di trovare casa, vivevamo in albergo. Diego ci costrinse ad andare a casa sua, ci fece dormire nella sua camera da letto, ci disse che potevamo stare lì quanto volevamo: dopo tre settimane, quando trovammo casa, era dispiaciuto”.
Quando giocava nella Lazio lei era il Cruijff italiano. Aveva stile e sfrontatezza, padronanza assoluta della tecnica. Imitava il campione olandese?
“Di più (ride), lo scimmiottavo in tutto. Nelle movenze, nel tocco, nel tiro. Andavo dal barbiere con la sua foto e mi facevo tagliare i capelli come lui, a caschetto: è stato la mia fonte di ispirazione”.
Che cosa ha significato nascere e crescere a Trastevere?
“Imparare a stare al mondo, quando il nostro mondo era tutto lì, tra Vicolo del Cinque, dove sono nato, e Campo de’ Fiori. Giocavamo per strada, piazza de’ Renzi era il nostro stadio. L’istinto l’ho affinato lì, tra i sampietrini e i muri dove calciavo il pallone per chiedere il triangolo. Se va a rivedere il gol che Careca fa a San Siro in un Milan-Napoli 4-1 del 1987, dopo una serie di triangolazioni, trova quel modo di giocare”.
Il gol che meglio la rappresenta qual è stato?
“Quello segnato al volo a Dino Zoff, in un Lazio-Juventus degli anni 70. C’era tecnica e sfrontatezza. Con Dino ci scherziamo ancora”.
“Rabbia, tanta rabbia. Sono passati quarantacinque anni e ancora non me ne faccio una ragione. Venni punito ingiustamente, per una faccenda che non mi aveva mai coinvolto. Quella squalifica mi ha privato della possibilità di diventare campione del mondo. In Spagna, nel 1982, probabilmente ci sarei stato anch’io. Ricordo che vidi la finale contro la Germania a Fregene, a casa di amici. Alla fine andammo in strada e facemmo festa, ma avevo una strana malinconia addosso. Era il rimpianto di non essere lì con gli altri azzurri. Solo una cosa mi faceva felice: pensare alla gioia del mio amico Paolo Rossi”.
In quel Mondiale Rossi ebbe la carezza del destino e trovò consolazione dopo la squalifica.
“Visse una favola, ma ricordare Paolo solo per i gol è limitativo: sapeva giocare, era nato ala destra, aveva tecnica eccellente. In area era implacabile: sembrava un bambino ingenuo, ma era scaltrissimo”.
Maradona, Careca, Rossi. Con chi altro ha avuto il piacere di intendersi a meraviglia?
“Con Vincenzo D’Amico, un fratello. Aveva piedi brasiliani, era un 10 che sapeva fare tutto. Come Paolo, Vincenzo era buono: non riuscivi a litigarci neanche a volerlo. In ritiro gli allenatori lo marcavano stretto perché tendeva a ingrassare. Un’estate, a Pievepelago, vedo che a pranzo e a cena mangia un’insalatina, due carotine, un po’ di riso. E penso: bravo, hai capito che bisogna mettersi a dieta. Ho scoperto che era d’accordo con un salumaio del paese. Passava di lì tutti i giorni, e quello gli preparava fettuccine e panini imbottiti”.
Giordano, oggi lei è apprezzato opinionista Rai. Si diverte ancora a guardare il calcio?
“Sono un malato di calcio, guardo tutto, vivo ogni partita nell’attesa che si accenda la scintilla della bellezza: mi emoziona ancora”.
E da che giocatore se l’aspetta?
“In Italia da Leao, se solo fosse più continuo…All’estero da Bellingham, Vinicius e Mbappé: dopo l’era di Messi e Cristiano Ronaldo, tocca a loro”.
A proposito di Messi: con Suarez e Neymar al Barcellona, una decina d’anni fa, ha formato un tridente formidabile. Più forti loro o la Ma.Gi.Ca.?
“E me lo chiede? (Ride) Io prendo sempre la Ma.Gi.Ca., anche perché evoca la magia. E il calcio è quella cosa là: magia pura”.
Giordano: “La Ma.Gi.Ca era un inno alla gioia; a Diego mi unisce un destino”
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