De Giovanni riflette sull’Olimpo trasversale di Napoli che non può dimenticare nè il D10s nè il Lazzaro Felice. Ne parla al quotidiano il Mattino:
Il tifoso Maurizio de Giovanni, scrittore di bestseller, «malato» degli azzurri, di Maradona e di Pino Daniele, ha visto Napoli-Roma da casa: «Da tempo il coinvolgimento mi porta ad avere atteggiamenti non consoni alla mia immagine pubblica, preferisco vederla da solo», dice sorridendo.
«Sono stati momenti teneri, toccanti, pieni di spunti di riflessione e poesia. La voce del cantante che ha incarnato Napoli, le sue bellezze e le sue ferite, tornata con parole nuove nello stadio che i napoletani hanno consacrato al più grande giocatore della storia, per di più nel giorno che ci ricorda la sua fine: mi è venuto da pensare. Soprattutto alla nota musicale nascosta che è la vibrazione in cui la città trova sintonie, e a come i napoletani hanno eletto un loro olimpo trasversale».
Come scelgono i loro beniamini?
«Non sulla base della loro grandezza oggettiva o su valori assoluti ma secondo l’amore che per loro hanno espresso nei confronti della città: così alcune figure si ritrovano a far parte della memoria storica di Napoli. Il popolo le introietta e non serve neanche che siano napoletani, come nel caso di Diego: basta che lo siano nell’anima, che facciano da interpreti del sentimento sotterraneo che unisce ogni strato del luogo. Facciamo degli esempi: Totò è nel cuore dei miei concittadini, Eduardo meno. Personalmente trovo De Filippo il più grande di tutti, eppure i partenopei scelgono Totò, Massimo Troisi, persino una figura scomparsa oltre un millennio fa come San Gennaro e non Eduardo o Luciano De Crescenzo che pure ho amato tanto».
«Qua non c’è discussione: sono figli di questa città e la gente li ama come e più di prima, sono rappresentanti di una Napoli ventrale, cardiaca direi, che incarni solo se rispondi alla vocazione popolare dei suoi abitanti. Stanno insieme, seduti in questo pantheon che noi napoletani ci creiamo e che rimane, lavora, è attivo, è tutt’altro che monumentale o meramente celebrativo. Guardiamo a cosa succede con il brano di Pino: attraverso il tempo e lo spazio sentirlo proporre ancora – d’altra parte la canzone si chiama “Again” – le sue note e la sua poesia ci conferma ciò che sappiamo tutti, che è ancora vivo. E questo accade mentre ricordiamo la fine di Diego».
Quattro anni fa scompariva Diego, che momento fu per lei?
«Una notizia terribile, ma come lo è stata con tutti i personaggi immensi, come fu con Massimo Troisi e con lo stesso Pino Daniele. Una morte a cui non si è preparati: malgrado sapessi che difficilmente avrei visto Maradona da vecchio, date le sue condizioni, lo vedevo come un immortale, sentii dentro uno smarrimento assoluto. E una grande solitudine».
Ha scritto di lui e anche di Pino.
«Pino ha scandito tanti momenti della mia vita. Ho ricordi per ogni suo brano, per quando uscì “Terra mia”, per quando ascoltavo “Je so pazzo”, e anche per “Napule è” che oggi è un po’ inflazionata, ma resta la sigla della nostra città. Persino il tanto contestato “secondo” Pino Daniele, che cantava meno in napoletano, mi piaceva, su tutti “Dubbi non ho”. Fu pubblicata quando lavoravo in Sicilia, era un richiamo dolce alla mia città lontana».
Diego e Pino sarebbero contenti della Napoli di oggi?
«Sì, nella misura in cui rappresentano ancora adesso le luci di una città piena di ombre, nonostante abbiano vissuto fuori e siano morti altrove. La parte luminosa, quella protagonista, quella che oggi si mostra al mondo, è incarnata da figure come le loro. E proprio per rispettare la città e ciò che hanno dato al territorio dobbiamo fare i conti con la loro presenza».