Giorgio Perinetti, il veterano dei direttori sportivi, con un passato alla Roma ed al Napoli, rispolvera i suoi ricordi sul match, da Ranieri a Conte, ai microfoni de Il Mattino: «Io e Ranieri siamo nati nello stesso anno, il ‘51. Ci siamo incrociati per la prima volta da ventenni nella Roma allenata da Herrera: lui giocatore della giovanile e io accompagnatore della prima squadra. Conte l’ho visto da molto vicino quando era il capitano e il leader della Juve: io ero il dirigente in panchina, al fianco di Lippi o Ancelotti».
«E del post-Moggi: presi io il posto di Luciano. Con Claudio ci eravamo ritrovati già qualche anno prima, quando lui allenava il Campania in serie C e io dirigevo il settore giovanile del Napoli. Dopo Moggi e Maradona andò via Bigon, l’allenatore del secondo scudetto. Per me fu un battesimo del fuoco. Con Ferlaino ci chiedemmo a quale tecnico affidare il Napoli. Vi fu un contatto con Sacchi ma Arrigo aveva un patto con Berlusconi: non avrebbe potuto allenare un club italiano, al massimo la Nazionale. E così decidemmo di “sostituire” il più grande calciatore al mondo con un collettivo forte, giovane e ambizioso affidandolo a Ranieri che aveva fatto benissimo a Cagliari».
Prima stagione brillante, con la qualificazione in Coppa Uefa. E poi?
«Nel primo anno cercammo Savicevic ma il richiamo del Milan fu più forte. E allora affidammo la 10, bellissima e pesante, a Zola. Fu fatto un mercato funzionale all’idea di calcio di Ranieri e il Napoli arrivò quarto. Ciò stimolò Ferlaino, che tentò di rilanciare la sfida scudetto nella seconda stagione, partendo da un giovane e forte attaccante come Fonseca. Ma le cose non andarono come si immaginava. Dopo l’1-5 contro il Milan il presidente licenziò Ranieri e mi dimisi anche io per coerenza».
E Conte?
«Capitano e leader della Juve di cui io ero dirigente accompagnatore, con Lippi e Ancelotti in panchina. Personalità assoluta, il tramite tra allenatore e squadra, dettava ordini ai compagni. Si capiva che era un predestinato».
Lo portò a Siena come vice di De Canio.
«Antonio stava completando il corso da allenatore a Coverciano: gli suggerii questa opportunità per iniziare il lavoro sul campo a Siena e continuare a studiare a Firenze. Poi lo portai a Bari: salvò la squadra il primo anno e centrò nel secondo la serie A. Era giovane e un po’ impulsivo, andò via temendo che non sarebbe stata allestita una squadra competitiva. Ci saremmo rivisti a Siena: altra promozione».
E lei suggerì Conte alla Juve?
«Suggerire… Conte non aveva bisogno di segnalazioni, però dissi ad Andrea Agnelli che avrebbe fatto la scelta giusta. E infatti Antonio fece subito vincere la Juve».
«Dalla passione che continua ad animarli anche dopo tante esperienze e tanti successi. Hanno un amore profondo per il calcio e gestiscono bene il gruppo, anche se con modalità differenti: Ranieri ha toni più dolci, Conte è più aggressivo perché pretende molta intensità».
Entrambi erano legati a sua figlia Emanuela, scomparsa giovanissima il 29 novembre di un anno fa: la stroncò l’anoressia.
«Pochi giorni dopo la sua morte, mi telefonò la psicologa che l’aveva in cura e mi disse che una ragazza, colpita dalla vicenda di Emanuela, aveva deciso di affidarsi ai genitori e ai medici per guarire. Da quel giorno ho continuato a lottare».
Cosa significa lottare?
«Tentare di trasformare il dolore in un’opportunità. Faccio tanti incontri per raccontare l’esperienza che ho vissuto con mia figlia, scomparsa a soli 34 anni, e sottolineare la problematica dei disturbi alimentari. Bisogna, appunto, lottare contro l’anoressia e la bulimia, malattie subdole che hanno numeri preoccupanti. Questa missione mi ha dato la forza di andare avanti. Ci sono tante giovani vite che si possono salvare».