Nella grande trama storica della sfida scudetto tra Inter e Napoli, c’è un intreccio speciale che ci riporta a Italo Allodi, probabilmente il più grande manager di calcio italiano, di sicuro l’uomo che fece grandi – in due periodi diversi – entrambe le squadre. La Grande Inter di Herrera, il Napoli di Maradona. E già questo potrebbe bastare per staccare di due spanne il curriculum di un intero esercito di suoi colleghi. Ad Allodi va riconosciuta l’invenzione della figura del dirigente di alto livello in un mondo – quello del nostro calcio – che per tanto tempo ha pensato di poterne fare a meno. Su di sé Allodi riassumeva competenze specifiche che comprendevano tutti gli aspetti della società, da quello tecnico a quello finanziario: ciò l’ha reso un formidabile costruttore di squadre.
Oggi rientra nella (quasi) normalità, ma al suo tempo – gli anni 60 – non era affatto scontato che un dirigente sapesse muoversi con abilità in due territori così diversi. In anni di rivoluzioni epocali per il calcio e per la società civile in generale, Allodi ha incarnato – soprattutto e più di tutti – il Potere in tutte le sue declinazioni. Gianni Agnelli di lui una volta disse: “Allodi è come Santa Rita: tutto può e tutto fa”.
Le origini
Era nato ad Asiago il 13 aprile del 1928, ma cresciuto a Suzzara, nella campagna mantovana, figlio di un ferroviere e di una casalinga. La sua è stata una storia da film, avrebbe potuto essere il protagonista di una delle tante pellicole che in quegli anni raccontavano il riscatto sociale di chi, nato in condizioni di accettabile miseria, riusciva a darsi un contorno nella società. Capostazione mancato, calciatore di piccolo cabotaggio, aveva giocato al massimo in Serie C, giornalista per vocazione adolescenziale, quindi piazzista per una ditta di prodotto petroliferi, Allodi è stato un tipico esempio del self-made man, l’uomo che si è fatto da sé, l’italiano virtuoso che negli anni ’60, stagioni del boom economico e del miracolo italiano, si carica sulle spalle i sogni e le ambizioni di un’intera generazione. Il suo ingresso nel calcio avviene nel 1956, all’abbrivio dei trent’anni Allodi è dirigente del Mantova allenato dal suo amico Edmondo Fabbri, futuro C.T. della Nazionale che – esattamente dieci anni dopo – conoscerà l’onta della vergogna, vedi alla voce Corea. Quel Mantova è il primo piccolo capolavoro di Allodi: è lui a porre le basi per la favolosa cavalcata che porta la squadra dalla Serie C alla Serie A in pochi anni.
La classe
Allodi ha l’attitudine della fauna, il portamento del nobile. E’ scafato, astuto, abilissimo nel destreggiarsi tra calciatori e dirigenti. E’ a lui che Angelo Moratti, il papà di Massimo, si affida negli anni ’60 per costruire, con Helenio Herrera in panchina, una grande Inter. Tre scudetti, due coppe dei campioni. E’ l’Inter del Mago Helenio Herrera, di Burgnich e Facchetti, Suarez e Mazzola. E’ in quel momento che nasce la figura del manager. Questo veneto dai modi educati, quasi affettati, è il re incontrastato dell’Hotel Gallia, dove si tiene il calciomercato. Uomo di cultura, appassionato di arte moderna, Allodi mette in circolo soprattutto uno stile diverso da tutti i suoi colleghi. E’ uomo di pubbliche relazioni. I giornali sportivi scrivono che è il Cardinale Richelieu del calcio italiano, proprio come lo statista francese è un grande stratega capace di piegare la diplomazia al proprio interesse. Sandro Mazzola ha raccontato che il primo contratto all’Inter glielo fece lui. Dopo un’ora di trattative, Allodi chiamò la segretaria e disse: “Portami uno spillo, che lo sgonfiamo subito”. Il motivo era che Mazzola chiedeva 60 mila lire al mese di ingaggio. Allodi lo prese un po’ in giro, voleva testarne il carattere, ma alla fine lo gratificò con un ingaggio persino superiore a quello richiesto e pari a 80 mila lire.
Il sogno Eusebio
All’Inter Allodi stava per portare Eusebio. Il fuoriclasse portoghese, fervente credente, era venuto a Venezia, per un voto a San Marco, e Allodi l’aveva intercettato. Poi il Benfica si oppose e l’affare sfumò. Ci riprovò anni dopo con Franz Beckenbauer, il Kaiser che dirigeva le difese di Bayern Monaco e Germania Ovest: incontrò il campione in vacanza a Cesenatico e leggenda vuole che gli abbia fatto firmare una sorta di precontratto, sul tavolino di un capanno vista mare. Ma il colpo mancato più rilevante riguarda Pelè: Allodi trattò personalmente con O Rei, trovando un accordo per 600 milioni di lire. Moratti tentennò, in Brasile arrivò la notizia – fin lì tenuta segretissima – e la tifoseria del Santos insorse: ci sarebbe stata un’insurrezione popolare, meglio lasciar perdere. Tra il periodo all’Inter e quello al Napoli, Allodi rifonda la Juve negli anni 70, la Giovin Signora. E’ lui a comprare i campioni che per un decennio formeranno l’ossatura della squadra più forte d’Italia; Zoff, Cuccureddu, Bettega, Furino, Causio.
Lo scudetto
Sul primo scudetto del Napoli, quello del 1986-87, c’è la sua firma: è Allodi il consigliere privato, e più ascoltato, del presidente Corrado Ferlaino. Allodi arriva a Napoli nel 1985. E’ già a tutti gli effetti il più accreditato – e il più temuto – dirigente di calcio italiano. E’ lui a contribuire con le sue intuizioni a portare il Napoli da una dimensione provinciale ad una europea. E’ sempre lui a volere a tutti i costi Bruno Giordano. In questo lo affianca Maradona, che ritiene l’ex laziale l’unico vero fuoriclasse del calcio italiano. A Napoli trova un giovane segretario generale che si è fatto le ossa ad Avellino, dove è nato: si chiama Pierpaolo Marino e cresce all’ombra del più grande per poi trovare, qualche anno dopo, la sua strada e diventare uno dei direttori sportivi più apprezzati e credibili. La permanenza a Napoli di Allodi viene bruscamente interrotta il 12 gennaio del 1987 quando lo colpisce un ictus. E’ costretto ad abbandonare la sua attività. Ma quando a maggio il Napoli vince il suo primo storico scudetto, sono in moltissimi a rendergli omaggio e tributargli il giusto merito per aver ideato e costruito la squadra campione d’Italia.
La fama
Italo Allodi è morto a Firenze, di infarto, il 3 giugno 1999, a 71 anni. La sua è stata una figura complessa, più volte è stato accusato di corruzione (celebri erano i regali agli arbitri che dirigevano le partite della Grande Inter nelle coppe), ma dai processi ne è sempre uscito pulito. Certamente è stato il dirigente più “decisivo” dell’abbondante ventennio che va dall’inizio degli anni 60 fino a metà anni 80. Tra le tante cose, ha avuto il merito – lui che era così lungimirante – di dare vita al Centro Studi e al Supercorso di Coverciano, scuola di calcio dove da oltre quarant’anni si formano gli allenatori di casa nostra. Disse all’epoca: “Coverciano è l’unico sistema per rilanciare il calcio italiano. Se si vogliono raccogliere i frutti bisogna preparare prima di tutto gli istruttori. E’ il maestro che forma l’allievo: è da qui che si deve partire”. Lungimirante, anche in quella occasione.
Fonte: Gazzetta