Da poco più di un mese, «Il Mattino» diretto da Giovanni Ansaldo aveva lasciato la sede dell’Angiporto galleria per il nuovo palazzo di via Chiatamone 65. Ancora per poche settimane, Gino Palumbo avrebbe guidato la redazione sportiva prima di trasferirsi a lavorare a Milano. L’estate del 1962 si mise bene per i tifosi del Napoli. La cavalcata in serie B era stata trionfale, il Napoli tornava in serie A dopo una stagione salvata dai soldi del «Comandante» Achille Lauro rimasto solo presidente onorario. Per consentire l’iscrizione al campionato professionistico di serie B, Lauro aveva firmato senza scomporsi una garanzia di 250 milioni. «Rivoluzionerò la squadra» aveva annunciato trionfante, lasciando alla presidenza il fedelissimo Alfonso Cuomo, che aveva fatto iscrivere al suo Partito monarchico e aveva fatto eleggere in Consiglio comunale.Vittima del trasformismo consiliare, il «Comandante» aveva dovuto lasciare la poltrona di sindaco di Napoli, ma era stato rieletto in Parlamento. Calcio e politica, con gli azzurri che regalavano luce e consensi a Lauro. Dopo aver travolto ben quattro squadre di serie A, gli azzurri potevano fare il colpo grosso conquistando il primo vero successo della loro storia: la Coppa Italia. Superati ossi duri come l’Alessandria unica in serie B, e squadre di serie A come Sampdoria, Torino, Roma, Mantova, il Napoli era in finale. Appuntamento allo stadio Olimpico di Roma, giovedì giorno di san Luigi: il 21 giugno del 1962. Di fronte, ci sarebbe stata la Spal, da undici anni saldamente in serie A.
Quattro inviati
Era un «avvenimento sportivo» senza precedenti nella storia della città e della squadra. Il Napoli in finale e Gino Palumbo spedì a Roma ben quattro inviati. La cronaca della partita, scritta rigorosamente con i verbi coniugati al passato remoto come si usava, venne affidata al più esperto Cesare Marcucci futuro presidente dell’Ordine dei giornalisti campani. La premiazione l’avrebbe seguita un altro giornalista-decano: Ciro Buonanno. E poi, la pagella affidata ad Agostino Panico, già colonna napoletana del «Corriere dello sport», con il più giovane Bruno Lucisano a raccogliere i commenti a caldo negli spogliatoi. Un poker agguerrito, in una Roma invasa da non meno di tremila tifosi napoletani pronti a far festa.
Sulla panchina, sedeva lui, il «petisso», Bruno Pesaola, argentino radicato a Napoli che fino a due anni prima indossava ancora la maglia azzurra in campo. Lauro lo considerava un fortunato, lo aveva apprezzato da calciatore, ne sposava l’originalità, la spavalderia senza peli sulla lingua. Il «Comandante» aveva fatto chiamare Pesaola, che allenava la Scafatese senza avere ancora il patentino, alla ventunesima giornata, dopo la sconfitta azzurra a Novara. Via Fioravante Baldi, ex calciatore per un anno a Napoli, scommessa su Pesaola. Venne registrato come «accompagnatore», non avendo ancora patentino né requisiti formali per un contratto da allenatore. Ma forma o non forma, il «petisso» cominciò a vincere, raggranellando poi 25 punti, con 10 successi, 5 pareggi e 3 sconfitte fino alla promozione in serie A.
La partita
A Roma, contro la Spal, Pesaola si affidò alle sue invenzioni tattiche, descritte da Marcucci: spostò Pierluigi Ronzon dal centrocampo a, si diceva allora, libero metodista. Poi, «il metodo Pesaola» prevedeva Achille Fraschini alla regia di centrocampo e Gianni Corelli bomber. Ebbe ragione, il «petisso». Corelli segnò subito, ma si fece poi parare un calcio di rigore. La Spal pareggiò, ma a dieci minuti dalla fine, con un gran tiro al volo da fuori area, Ronzon siglò la vittoria. «Il Napoli trionfa anche in Coppa Italia» titolò «Il Mattino». E quel «anche», dopo la promozione in A, era tutto un programma. Panico fu misurato nei voti: mise 7 a otto giocatori e un 6 a altri quattro. Erano i criteri di allora. «Pesaola in trance» era il titolo sui commenti dei protagonisti. «Voglio vedere chi ha il coraggio di toglierci quello che abbiamo conquistato sul campo» urlò Pesaola, alludendo al processo in corso in Federazione per delle accuse di illeciti rivolte al Napoli. Un processo finito in assoluzione. Poi la premiazione, con la Coppa consegnata ad Amos Mariani, quel giorno capitano, dal ministro Alberto Folchi. Invasione di campo, festa, in brodo di giuggiole Rivellino, come Girardo e Tacchi. E Marcucci concludeva il suo pezzo: «Le macchine targate NA sfilano per le vie della Capitale, in un carosello policromo e rumoroso. È la festa di Napoli e del Napoli». La prima, nella storia azzurra.