Dal ritiro di Dimaro Moser parla del “Cannibale” e Pogacar. Chi è il più forte?

Non c’è che dire, Francesco Moser tiene in scacco il tempo. Per lui, il ciclista italiano più vincente di sempre con 273 successi, la bicicletta è un modo di essere. E’ l’identità stessa che lo porta a mostrare, senza finzione alcuna, esattamente quello che è. «Perché chi soffre in bici – racconta – non ha tempo per dissimulare. O pedali o resti lì, staccato, a piangerti addosso. Finanche a pregare».

Moser è la testardaggine del Trentino, la forza bruta della determinazione che lo ha portato negli anni ad uscire dal piccolo centro abitato di 600 anime per andare a conquistare il mondo sull’anello di Città del Messico. Stravolgendo tecniche e preparazione.

Nel lungo percorso che il ragazzo, contadino fino ai 18 anni, ha fatto per diventare lo “sceriffo del pedale” ci sono gli esordi sulle ruote dei fratelli più grandi, la prima bici regalatagli da Aldo, le prime vittorie, il campionato del mondo a San Cristobal, le tre Parigi-Roubaix consecutive, il record dell’ora con le stesse ruote lenticolari utilizzate per entrare all’Arena di Verona e vincere il Giro d’Italia sull’affranto Fignon.Una vita fa, un ciclismo che non c’è più e che per molti è enorme rimpianto.

«Non ero Pogacar ma al mio tempo ero il numero uno. Dico sempre che a fine corsa arrivavamo in mezzo ai leoni. Non c’era tutta la sicurezza che c’è ora. Pensa che in moklti casi all’arrivo non c’erano neppure le transenne. Se ti andava bene i tifosi ti portavano via tutto. Avessero potuto ti avrebbero tirato via anche la maglia. Tutti volevano fare foto, botte sulla schiena, strattoni e resse…toccava anche difendersi altrimenti si rischiava di soccombere in tutto quell’entusiasmo che però era la vicinanza alla passione della gente. Adesso i corridori sono sempre protetti, da quando arrivano in pullman alla partenza e raramente hanno il contatto diretto con le persone. Ora va così. E anche economicamente c’è una differenza di uno a dieci dai nostri tempi».

Ma anche in corsa è cambiato tutto. Oltre alle biciclette, ai metodi scientifici esasperati, alla cura maniacale del particolare: tutto ha reso questi ragazzi autentici supereroi.
«Beh, cominciamo dicendo che ai miei tempi questi aggeggi, i telefonini, non esistevano. Adesso i corridori sono costantemente collegati con i direttori sportivi, i quali vedono la corsa e il loro svolgimento dalla tv, guidandoli pertanto all’azione in ogni fase della corsa. Poi partono a mille e arrivano a mille. Non c’è mai tregua, è subito bagarre già dal via. Rispetto ai nostri tempi hanno tappe più brevi. Ho corso una sola volta il Tour, quando vinsi due tappe e indossai anche la maglia gialla, a Parigi invece tenni la maglia bianca che oggi ha sulle spalle Evenepoel. Negli stessi giorni facevamo 4100 chilometri mentre oggi ne coprono 3400. 700 in meno, tutto ad un’andatura più sostenuta. Stanno in sella almeno venti o venticinque ore meno di noi, questo fa la differenza».

Poi, o forse in testa c’è la cura del dettaglio.
«Ogni corridore ogni ha un nutrizionista. Non ci sono eccessi, si rasenta la perfezione che poi si riflette sul rendimento in corsa. Noi andavamo negli alberghi e mangiavamo quello che ci davano. I primi anni da professionista ricordo che al Giro d’Italia entravamo in vere e proprie bettole e per riposare mettevamo a terra i materassi per evitare che diventassero amache scomodissime, letali per la schiena. Adesso ci sono squadre che portano dietro il materasso per ognuno degli atleti affinché il riposo possa essere massimo».

Francesco Moser e le sfide leggendarie con Merckx e Hinault, o con il rivale di sempre, Beppe Saronni. Campioni immensi la cui storia è oggi messa a dura prova dal paragone con Pogacar.
«E’ un fenomeno. Io ho corso con Merckx che era forte perché quando voleva andare andava via. Ma questo è più forte di Merckx, sicuramente. E’ più giovane e può fare ancora cinque o sei anni a tutta, battendo ogni record se va avanti così. Anche quando sembra si disinteressi della tappa poi esplode staccando tutti, annullando la concorrenza. Il bello è che Pogacar scatta quando gli altri sono al gancio. E li straccia con una facilità che pare stia facendo un allenamento, non una corsa».

Da un lato Pogacar l’imprendibile, dal versante italiano una crisi che ha pochi precedenti.
«Non so perché o quale sia il motivo di tante difficoltà. C’è sempre la sensazione che qualcuno stia per arrivare poi si perde dopo un buon inizio. All’inizio del Tour ad esempio speravamo nell’abruzzese Ciccone che lo scorso anno risultò il migliore tra gli scalatori. Quest’anno è decimo e avrà una quarantina di minuti di distacco dai primi, molla quasi tutti i giorni in salita. E non puoi sperare così di esser competitivo».

 

Fonte: Il Mattino

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