A margine della presentazione del libro “Il romanzo del giornalismo italiano. Cinquant’anni di informazione e disinformazione” di Giovanni Valentini, giornalista e scrittore, Il Napoli Online ha realizzato un’intervista esclusiva all’autore.
A cura di Riccardo Cerino
Iniziamo dal racconto di questo volume e di come è cambiato il giornalismo dalle origini ai giorni nostri.
“Il libro è un romanzo appartenente al genere letterario del memoir. Il giornalismo in generale è cambiato per una serie di ragioni legate all’evoluzione tecnologica, alle novità di mercato, all’avvento prima della radio poi della televisione, infine di Internet senza tralasciare quelle che saranno le novità dell’intelligenza artificiale. Il giornalismo in Italia si è modificato per le stesse ragioni con le quali s’intrecciano situazioni più specifiche riguardanti il nostro mercato, in particolare con l’estinzione dei cosiddetti editori “puri”, ossia imprenditori dell’editoria che fanno informazione non per fare affari in proprio ma editori i quali, sulla falsariga di Mondadori, Rizzoli o il Gruppo Caracciolo, facevano dell’editoria un mestiere, una passione civile. Oggi tali condizioni sono cambiate e due fattori quali, da un lato, l’evoluzione tecnologica e, dall’altro, l’estinzione di questa specie da difendere ad ogni costo (gli editori puri, n.d.r.) hanno generato una situazione di crisi che oggi soffoca il pluralismo dell’informazione e, quindi, la vita democratica del nostro paese“.
C’è un episodio in particolare della sua carriera che vuol ricordare o comunque menzionare un qualcosa che oggi, in particolare per i giovani alle prime armi, è difficile reperire con facilità?
“Con l’avvento di Internet sono cambiati due elementi fondamentali della comunicazione applicata all’editoria. Si è avuta innanzitutto una modifica della comunicazione in tempo reale, unitamente all’interattività, assente o comunque fortemente limitata sui giornali mentre istantanea su Internet, ed alla multimedialità, altro potente fattore di cambiamento perché consente di fondere dei codici di comunicazione che uniscono il testo scritto, l’immagine – sia essa fissa o in movimento – ed eventualmente il sonoro. Tutto ciò ha determinato un’evoluzione del modo di comunicare e di essere giornalisti: una volta il giornalista era abituato a fornire dal pulpito dei giornali la sua interpretazione e la sua lettura dei fatti e della realtà. Oggi questo è diventato un canale a doppio senso: chi comunica dev’esser pronto a ricevere numerose sollecitazioni, per cui è diventato un mestiere certamente più impegnativo. Questa è la ragione per la quale già diverso tempo fa coniai l’espressione di <<post-giornalista>>, figura professionale più evoluta ed articolata in grado non soltanto di scrivere un testo ma anche di registrare un’intervista, di filmare un video e poi eventualmente rispondere alle diverse sollecitazioni del pubblico“.
Quali, a suo giudizio, sono i rischi dell’intelligenza artificiale, divenuta sempre più imprescindibile nella nostra quotidianità, per la professione giornalistica?
“Sarei propenso, da una parte, a non demonizzarla: noi tutti abbiamo da sempre la tendenza a diffidare del nuovo, del progresso: dai telai meccanici al tempo della Rivoluzione Industriale, il treno, l’automobile, fino alla televisione. Che fu accolta con grande diffidenza e preoccupazione. È necessario capire se e come l’intelligenza artificiale possa aiutarci ad integrare il nostro lavoro, sulla falsariga della meccanizzazione dei processi produttivi e poi dell’informatizzazione: evitando o riducendo da una parte le fasi ripetitive di un lavoro, consentendo dall’altra l’applicazione delle nostre risorse intellettuali ad un livello di informazione, analisi e commento qualitativamente più alto. Penso che sia inutile schierarsi aprioristicamente contro l’intelligenza artificiale come se fosse i mulini a vento per Don Chisciotte: è fondamentale comprendere entro quali limiti possa essere debitamente regolata, regolamentata e quindi applicata anche al nostro lavoro. Tuttavia è altrettanto importante comprendere, da parte dell’umanità, che possa essere rischioso insegnare le macchine ad imparare: se le macchine saranno in grado di elaborare più adeguatamente ed approfonditamente i contenuti inseriti nei cervelli elettronici è un conto, in caso contrario il rischio è che sfuggano al nostro controllo e, dunque, alle regole che devono presidiare ad un sistema informativo completo, corretto e democratico nel senso pieno del termine, ossia sotto il controllo del popolo“.
Ciò che sembra non stia avvenendo in Italia da diversi mesi a questa parte: si parla frequentemente di riforma Rai e di problematiche interne al Servizio Pubblico. Qual è il suo giudizio in proposito?
“Parliamo di situazioni differenti. Quella della Rai è una questione particolare alla quale dedico ormai da molti anni la gran parte del mio lavoro: penso che per risolvere tale problematica siano due le parole chiave, ossia governance e risorse. Per governance s’intende il sistema di controllo della tv di Stato che non può essere più affidato alla politica ed alla partitocrazia dal momento che esse non fanno che alimentare la lottizzazione e, quindi, svilire il ruolo dell’informazione, core business del giornalismo radiotelevisivo. Sono poi da considerare l’intrattenimento, il varietà ed anche l’aspetto pedagogico: cito per tutti la storica trasmissione <<Non è mai troppo tardi>>. Essa favorì l’alfabetizzazione e l’omologazione del linguaggio da Nord a Sud della penisola. Credo perciò che la Rai possa e debba avere un grande futuro a condizione che sia liberata dalla partitocrazia e che possa disporre di risorse certe in grado di garantire ampia autonomia. Da questo punto di vista dovrebbe funzionare prevalentemente con il canone d’abbonamento, riducendo ogni tipo di sperpero e senza essere schiava di politica e pubblicità“.
In chiusura, cosa consiglia a quei giovani desiderosi di approcciare al giornalismo?
“Mi vanto di esser riuscito a dissuadere molti ragazzi dal fare questo mestiere, oggi sempre più difficile e precario. I giornali, com’è noto, stanno costantemente riducendo i propri organici e molti non hanno avuto altra scelta che quella di chiudere. Piuttosto, direi ai giovani di prepararsi a fare i comunicatori, più che i giornalisti: si può essere comunicatori in varie situazioni, come in aziende o enti pubblici. Sarebbe opportuno, dopo aver effettuato una preparazione di base universitaria, frequentare una scuola di giornalismo. In esse attualmente si pratica molta simulazione, attraverso la produzione periodica di piccoli giornali cartacei o brevi telegiornali e giornali radio: mentre da una parte aumenta il bisogno d’informazione, dall’altra si riduce l’offerta comunicativa professionale. A mio giudizio questo può essere un orizzonte da suggerire ai giovani“.