Non un giornalista, ma il giornalista. Mimmo Carratelli ed i suoi 90 anni. I racconti, la scrittura, le emozioni, i personaggi. Al CdS “la penna” soave, ironica, competente ed iconica del giornalismo napoletano:
Mimmo Carratelli, come si raccontano novant’anni?
«Eh, con fatica. Ma anche con l’entusiasmo di chi ha visto parecchie cose. La fine della guerra mondiale, la bomba atomica, lo sbarco sulla Luna, l’avvento del computer. Bisogna prendere la vita alla leggera. Se la salute ti assiste, ti adatti a qualsiasi cosa. Fino a un certo punto. Adesso sento gente che con le guerre e le riserve nucleari pensa di poter giocare».
«Ma per fortuna c’è. Non dimentico le mie gioie personali: i due titoli mondiali dell’Italia nel calcio, l’Olimpiade della pallanuoto, adesso Sinner. La vittoria di Mennea sui 200 a Mosca, l’impresa che mi sono emozionato di più a raccontare. Mennea tutto sembrava meno che un atleta. Ed eccolo lì che rimonta in ottava corsia. Lo sport dà una possibilità a tutti».
Ma il calcio nel racconto occupa uno spazio particolare.
«Sono nato con il Grande Torino. Ero tifosissimo di quella squadra meravigliosa. Quando la Juventus giocò al Vomero, negli Anni Cinquanta, Boniperti mi parlò di Valentino Mazzola. Giampiero è l’unico juventino che amo, oltre a Del Piero. Poi c’è il Napoli, che è come la vita: più sconfitte che vittorie, ma una passione travolgente».
E c’è un elenco infinito di giocatori memorabili.
«Sin da quegli Anni Cinquanta. Nell’Inter vidi giocare Faas Wilkes, il fenomeno che prima di Cruijff portò l’Olanda nella carta geografica del calcio. Uno spilungone che con i piedi faceva qualsiasi cosa. Sposò una principessa delle Antille».
Ma perché da Roma in giù, Napoli compresa, il calcio non trova continuità ad alti livelli?
«Perché è lo specchio del Paese. Al Sud si fa fatica a organizzarsi. Ferlaino capì che bisognava anche andare a nozze con il potere. Aveva agganci con Matarrese, con la Lega di Nizzola, nei media. Nella vittoria del secondo scudetto con Maradona tutto questo gli tornò molto utile. Incisero le sue cene e i suoi viaggi. Ma è per questo che il Napoli mi appassiona: soffrire per le retrocessioni, gioire per il secondo posto di Pesaola, impazzire per i titoli. Non c’è gusto a tifare per chi vince sempre».
«Infatti lo vivo con un certo distacco. E ripenso a quanto ci si divertiva con Ferlaino e Altafini. Per i rapporti stretti che noi giornalisti avevamo con i giocatori. Quando a Maradona tirarono il tranello del doping, passai con lui e un amico comune l’ultima sera a Napoli. Ci abbracciammo e piangemmo. Gli dissi: torna, a me non importa più niente dei dribbling, delle rabone, torna e basta. E lui: non ce la faccio, Mimmo, non ce la faccio. Ho pianto ancora quando confessò la sua dipendenza alla Tv argentina, come ho pianto alla notizia della sua morte. Era un uomo solo e io lo avevo capito».
Carratelli si sente un superstite nel giornalismo di oggi?
«Credo che il giornalismo si sia trasformato definitivamente quando sono sparite le tipografie. I tipografi erano veri compagni di lavoro. Con loro non c’era alcuna rivalità professionale, quindi componendo i nostri articoli li leggevano e ci giudicavano. Se trovavo pasticcini e vino voleva dire che avevo colto nel segno. Se respiravo gelo, avevo fallito. Poi i computer hanno isolato il lavoro, cancellando la caciara della redazione».
La gavetta era lunga.
«Io sono stato reporter negli ospedali, in questura. Ho avuto la scuola della cronaca prima di passare allo sport. Intervistai John Glenn, il primo astronauta statunitense entrato in orbita, quando era in visita a Napoli. Mi dissi: ma guarda, questo è stato nello spazio e sembra una persona normale. Bucai un’intervista ad Ava Gardner perché restò chiusa nella sua stanza d’albergo, ubriaca. Adesso i giovani non hanno queste possibilità. È tutto troppo veloce».
È il tempo la chiave di tutto?
«La chiave di molto. Potevamo leggere ogni giornale, i reportage di Egisto Corradi sul Vajont, gli articoli di Montanelli. Io leggevo e rileggevo Hemingway e Calvino, sempre alla ricerca del segreto della scrittura, dell’elemento che tiene viva l’attenzione dall’inizio alla fine. Mio padre Orazio, il primo maestro, era capo della redazione napoletana del Giornale d’Italia. Mi stracciava i pezzi in continuazione e me li faceva riscrivere finché non andavano bene. Diceva che erano scritti in un buon italiano, ma mancavano di ritmo».
Diremmo che ha funzionato.
«Ho firmato sul Roma una serie sui grandi navigatori e i grandi condottieri. Doveva scriverla Oriana Fallaci, che dette buca all’ultimo momento. Sul Corriere dello Sport, Giorgio Tosatti mi concesse una pagina sul concerto milanese di Frank Sinatra. E in seguito la storia di Bearzot in quattro puntate».
Esistono caratteracci peggiori di quelli di Aurelio De Laurentiis?
«Anche Ferlaino marciava a fare l’antipatico, ma con una certa eleganza. De Laurentiis però è un imprenditore di calcio moderno. S’inventò Benitez, ha reso il Napoli un club sano come pochi. Peccato si sia convinto di poter fare tutto da solo».
Ci sono nuovi libri di Carratelli in arrivo?
«No, a novanta basta. Sono finiti anche i numeri al lotto».
Fonte: CdS