La sconfitta più cocente, ricordata da Capello, è stata quella al Milan nell’anno del rientro dal Real Madrid. “Accettai di tornare – ha detto – perché Berlusconi mi chiamò e mi disse che avevano bisogno di me. Mi sentivo in debito nei suoi confronti, a lui dovevo tutto. Era quello che mi aveva tolto dall’ufficio e riportato in campo. Mi fece fare corsi da manager, dei corsi di inglese, altri in ambito psicologico. Vedeva qualcosa in me”. Ma, a differenza della prima esperienza alla guida del Milan, quella stagione non ebbe un buon epilogo. “Trovai una squadra – ha raccontato – che non riuscii ad amalgamare e mi mandarono via. La sconfitta va gestita e va studiata: devi capire gli errori che hai compiuto per non ripeterli più. Dopo quell’esperienza mi venne ancora più voglia di rimettermi in gioco e di non cadere più. Con tanta fatica e tanta volontà, riuscii poi a vincere un campionato con la Roma”.
Fondamentale, per Capello, è il tema dell’umiltà e il rispetto. “Sono cose che si hanno dentro. Ciò che insegnavo sempre ai miei calciatori era il fatto di trattare sempre con rispetto ed educazione tutti i componenti di una squadra: dai massaggiatori, ai magazzinieri, fino a tutta l’équipe”. Rispondendo alla domanda di Safiria Leccese in merito a chi tra gli allenatori del panorama attuale incarni il suo modello di leadership, Capello ha risposto: “Considerato quello che ha fatto a Napoli, direi Luciano Spalletti”.
Infine, il segreto per reggere la pressione. “Io ho avuto una forza: in casa non si parlava mai di calcio e io non leggevo mai i giornali, né quando vincevo, né quando perdevo. Vivevo – ha detto l’allenatore – in una sorta di camera sterile. In casa non ho mai portato un trofeo, li tengo in cantina, perché per me quando hai vinto hai fatto solo il tuo lavoro e devi pensare al dopo”.
Fonte: Matteo Coppi-ufficiostampasbf@plurimpresa.it