Forse era scritto nell’aria avvelenata di questo tempo o forse l’hanno vinta i più bravi, i più forti, quelli che con la Storia ci convivono. Forse è stato crudele uscire in quel modo, portandosi addosso la sofferenza per una domanda che non avrà mai risposta (come sarebbe andata se l’arbitro e il Var avessero visto il contatto Cubarsì-Osimhen?) o forse è giusto così. «Era netto e io non capisco perché non abbiano visto e rivisto ciò che sembrava, non solo a me, limpido. E quella vicenda ha avuto un peso».
Forse Francesco Calzona ci ha creduto davvero che il suo Napoli potesse non aver paura di niente e invece, nella notte da dentro o fuori, sono riapparsi i fantasmi di un anno intero, vissuto esageratamente, anzi pericolosamente, in un clima che ha spaccato quell’atmosfera meravigliosa del giugno scorso ed ha inquinato i pozzi ma pure gli schemi, un calcio che non c’è più e che non era semplice ricostruire, così, sulle macerie. «Ci abbiamo provato, abbiamo dato tutto quello che avevamo, abbiamo giocato come sappiamo, perché avevamo ed abbiamo bisogno di certezze e non era il caso di pensare a moduli diversi».
Poi non è una questione di soldi, di premi munifici elargiti quasi nella disperazione: non si incollano i cocci, e il sentimento, con colpi di teatro ma tendendo fede ad un Progetto che ad un certo punto Calzona ha tentato di rielaborare dopo aver ereditato il caso di gestioni contraddittorie e diverse, tra Garcia e Mazzarri, tra indirizzi così lontani da essere inconciliabili. «È chiaro che c’è delusione, perché sentivamo di potercela fare. Ci abbiamo creduto, abbiamo avuto anche l’occasione di pareggiarla con Lindstrom e forse avremmo meritato».
Però c’è anche il resto, in due partite che hanno detto più Barça e che Calzona accetta: «Siamo venuti qua per vincere, non per fare calcoli. Abbiamo cominciato male, li abbiamo subiti, abbiamo concesso troppe ripartenze, troppo palle scoperte, e sotto di due a zero è diventato difficile ma siamo stati in partita sino alla fine. Il risultato è severo, anche se il valore del Barcellona non si può disconoscere».
Né le difficoltà del suo Napoli, che è rimasto prigioniero delle proprie stelle e dei propri errori: «Ho tolto Politano perché era stanco ed avevo in panchina gente fresca, che avrebbe potuto darmi di più. Ma conosco il calcio, non ho nulla da rimproverarci: in così poco tempo, di più non si poteva fare per organizzarci meglio in difesa».
Fonte: CdS