Tre anni e quasi due mesi. Pesa maledettamente il
silenzio calato sulla morte di Diego Armando Maradona, avvenuta alle 12.30, ora di Buenos Aires, del 25 novembre 2020. Ci sono
otto indagati per omicidio con dolo eventuale, punito in Argentina con una pena dagli 8 ai 25 anni. Ma il processo – la cosiddetta
“fase orale” – non è mai iniziato e quegli otto professionisti, medici e infermieri che avrebbero dovuto assistere il Campione dopo l’operazione al cervello del 3 novembre nella clinica Olivos, hanno potuto in questi mesi continuare a lavorare tranquillamente presso ospedali e cliniche, o a domicilio, com’era accaduto in quell’appartamento del Barrio San Andres a Tigre, nella cintura urbana di Buenos Aires. Là dove Diego trovò la morte.
Prima ancora del processo mai iniziato, c’è da chiedersi perché non siano state decise misure restrittive da parte dei giudici nei confronti di questi otto professionisti, finiti nel mirino della commissione medica che venne nominata da John Broyard, capo della procura di San Isidro. Eppure, le accuse contenute nel dossier reso pubblico il 3 maggio 2021 sono pesantissime, riassumibili così: «Mancata assistenza. Abbandonarono Maradona al suo destino. Sapevano che poteva morire e niente fecero per aiutarlo». Definita «deficiente e temeraria» l’assistenza del neurochirurgo Leopoldo Luque, della psichiatra Agustina Cosachov, dello psicologo Carlos Angel Diaz, del medico coordinatore Nancy Edith Forlini, del coordinatore degli infermieri Mariano Ariel Perroni, dell’infermiere Ricardo Omar Almiron, dell’infermiera Dahiana Gisela Madrid e del dottor Pedro Pablo Di Spagna, medico dello sport inserito nell’elenco degli indagati in un secondo momento.
A capo di questo staff c’era il neurochirurgo Luque, che – altro aspetto strano della vicenda – pur essendo uno specialista e il medico più vicino a Diego non lo operò al cervello 22 giorni prima della morte, quando fu necessario rimuovere un edema cerebrale, provocato da una caduta accidentale, dissero coloro che componevano il variegato clan. In realtà, da tempo Maradona aveva problemi neurologici, emersi tutti nella loro gravità il 30 ottobre, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, quando a fatica camminò e disse poche parole mentre raggiungeva i dirigenti e i giocatori del Gimnasia La Plata, l’ultima sua squadra, per una foto dietro alla torta. Diego era molto ammalato. Insufficienza renale, grave cardiopatia, con un cuore che pesava 503 grammi, 40-50 per cento in più del normale: anni di abuso di cocaina lo avevano ridotto così. E altri abusi non erano cessati. Fu accertato che nei mesi prima dell’operazione al cervello Maradona aveva continuato a fare uso di psicofarmaci, prescritti dalla dottoressa Cosachov, di alcolici e marijuana, questi ultimi messi a sua disposizione da soggetti tutt’altro che raccomandabili – vi era tra essi un pregiudicato ricercato per rapina a mano armata – che frequentavano la sua abitazione in località Brandsen. I medici avrebbero dovuto assisterlo con attenzione e invece i controlli sarebbero stati a dir poco superficiali, secondo quanto emerse nell’inchiesta. Inquietante, poi, un audio nelle concitate ore del decesso, quello del dottor Luque a un amico: «Sembra che el gordo (il grasso, ndr) se ne va a morire». Tristissimo.
È l’unica che vi è stata per Luque, gli altri sanitari coinvolti e anche per l’avvocato Matias Morla, che era l’ombra di Maradona negli ultimi anni. Ha preso le distanze da Luque, da lui messo al fianco del sofferente Diego, e non è coinvolto in alcun procedimento giudizario, tuttavia per il popolo argentino – e soprattutto per le figlie di Diego e Claudia Villafane, Dalma e Gianinna – egli ha precise responsabilità nella fine del Campione dei nostri sogni. Però furono i familiari di Maradona, dopo l’operazione al cervello, a non rispettare l’indicazione dei medici della clinica Olivos per una convalescenza protetta presso una struttura specialistica. Le figlie Dalma e Gianinna – si è letto nelle carte – decisero di prendere in affitto quell’appartamento dove il padre avrebbe trovato la morte. I magistrati coordinati da Broyard e i componenti della commissione medica hanno respinto l’approssimativa tesi emersa pochi giorni dopo quel 25 novembre. «Diego si è lasciato morire», quasi una difesa. No, Diego venne spinto verso la morte perché non curato adeguatamente.