La sezione tributaria della Corte di Cassazione accoglie il ricorso presentato nell’interesse di Diego Armando Maradona e fischia così un nuovo tempo nel match giudiziario che da molti anni vede contrapposti l’indimenticato campione argentino e l’Agenzia delle Entrate. La storia è nota e ha inizio nella metà degli anni ’80, quando Maradona a Napoli era il Pibe de Oro e i suoi compensi raggiungevano cifre miliardarie. Si ipotizzò che alcuni diritti di immagine versati a società estere fossero un modo per mascherare stipendi al fine di sottrarli al Fisco italiano. L’accusa coinvolse non solo Diego ma anche la società Calcio Napoli e altri due campioni azzurri, Alemao e Careca. Per tutti la questione si risolse con il condono e l’estinzione del debito. Per Maradona, invece, no. E da allora va avanti una battaglia legale che ancora continua, a distanza di oltre tre anni dalla morte del calciatore argentino. Oggi la Cassazione dà ragione a Maradona e rimanda tutto alla commissione tributaria regionale, che dovrà esprimersi nuovamente sulla vicenda. In caso di giudizio negativo definitivo, l’eventuale debito residuo in sospeso ricadrebbe sulle spalle degli eredi. «Accoglie il ricorso principale» e «rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità». È con queste parole che la sezione tributaria della Cassazione (presidente Roberta Crucitti) ha accolto il ricorso discusso dall’avvocato Massimo Garzilli, che rappresenta Diego Armando Maradona nella battaglia legale contro il Fisco condotta assieme all’avvocato Angelo Pisani. Così la decisione della Cassazione emessa prima di Natale rimette in discussione la diatriba giudiziaria stabilendo un nuovo processo d’appello per definire la causa di Maradona contro l’Agenzia delle Entrate. Alla base della pronuncia ci sono i ricorsi presentati dagli avvocati di Maradona contro il rigetto delle istanze di autotutela avanzate dal calciatore argentino il 27 aprile e il 3 luglio 2015 in relazione all’avviso di mora che gli fu notificato il 17 ottobre 2013 e che aveva ad oggetto una pretesa creditoria da milioni di euro per Irpef più sanzioni e interessi riferiti agli anni di imposta dal 1985 al 1990. Maradona invocava l’autotutela, chiedendo che fosse esteso anche a lui il condono di cui, per la stessa vicenda, aveva beneficiato la società Calcio Napoli. Le commissioni tributarie provinciale e regionale rigettarono i ricorsi. Di qui la scelta di andare in Cassazione.La nuova sentenza della Suprema Corte si interseca con la decisione emessa l’11 marzo 2021 con cui si stabilì che il calciatore argentino avrebbe potuto beneficiare del condono e che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare la sua posizione tributaria solo per il debito eventualmente residuo nei confronti dell’Agenzia delle Entrate. Accogliendo il ricorso, che era stato proposto dagli avvocati Garzilli e Pisani ancor prima della sentenza del 2021, «la Suprema Corte ha sancito – spiega l’avvocato Garzilli – la violazione di legge che l’Amministrazione, nel denegare l’autotutela invocata da Maradona, ebbe a commettere nel non ravvisare l’esistenza di un interesse, di rilevanza generale, alla rimozione degli atti impositivi oggetto di impugnazione. In sintesi, il principio di diritto che si ricava (confermativo della precedente decisione del 2021) è che se adempie il “sostituto”, come accaduto nel caso di specie attraverso l’adesione al condono da parte del Calcio Napoli, il pagamento viene effettuato “per conto” del sostituito, la cui obbligazione si trova ad essere estinta limitatamente alla parte pagata o per la quale v’è stata applicazione del condono. Ne consegue che in mancanza di un accertamento di merito attestante l’effettiva somma ancora dovuta da Maradona, si verificherebbe l’effetto della doppia imposizione denunciato nel ricorso in commento proprio quale ragione dell’esercizio dell’autotutela». Tutto nacque da un accertamento fiscale fatto al club azzurro e alle sue tre punte: Maradona, Careca e Alemao. La lente degli inquirenti si fermò su alcuni diritti di immagine a società estere, ipotizzando che fosse un escamotage per non versare all’Agenzia delle Entrate contributi e Irpef. La società Calcio Napoli, Careca e Alemao impugnarono subito, Maradona invece no, in quel periodo era lontano da Napoli e si attivò in un secondo momento. Fu così che l’Agenzia delle Entrate arrivò a contestargli un debito di circa 37 milioni di euro, più della metà dei quali in interessi di mora. Ebbe inizio la lunga battaglia a suon di ricorsi e di sequestri passati alla storia, come quello dei due Rolex in oro che la Guardia di finanza sequestrò a Maradona nel 2006, appena il calciatore atterrò a Napoli per una partita di beneficenza da giocare a Giugliano (valevano 11mila euro e li ricomprarono alcuni amici del calciatore) e quello degli orecchini di diamanti tolti al Pibe mentre era in vacanza a Merano (valevano 4mila euro e furono poi venduti all’asta. Fonte: Il Mattino