È saltato il banco. Il governo ha detto “no” alle agevolazioni fiscali per evitare spaccature – «non valeva la pena dividersi proprio sul calcio», riferiscono fonti di Palazzo Chigi – e ha seppellito il decreto crescita senza concedere ai club i due mesi di tempo che chiedevano per mungere dalla vacca dello Stato le ultime gocce di
LA NORMA. Il “decreto crescita”, del resto, rappresentava un cortocircuito normativo: è una legge nata per aiutare un settore molto vasto (il mondo del lavoro) ed è stata stravolta da una categoria ristretta (il calcio) per ottenere un altro tipo di vantaggio. Va da sé che la politica, nei giorni in cui si fanno i conti, s’interroghi sul
«Anziché importare cervelli, stiamo favorendo l’ingresso di piedi…» la battuta fatta in estate da Abodi. Piedi stranieri, tra l’altro, con i giovani italiani in posizione di svantaggio rispetto a coetanei di altre nazionalità che ai loro datori di lavoro costano, di fatto, la metà. L’abrogazione era comunque nei piani del governo. Non si trattava di decidere se il decreto dovesse restare o meno, ma come e quando abbandonarlo, consentendo un’uscita pianificata. Non è stato possibile e in Cdm ieri gli animi si sono surriscaldati. La premier Meloni nei giorni scorsi ha ricevuto una lettera da parte dei club di A nella quale venivano evidenziati i vantaggi della tutela (come la competitività internazionale sul mercato) e i problemi causati da una cancellazione. Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha contrastato il decreto fin dal primo giorno – gli interessi delle nazionali, come detto, cozzano con questa misura – e ha continuato a essere scettico, nonostante la convinzione recente che l’eliminazione istantanea potesse generare effetti controproducenti visti i debiti dei club. Nel 2018-19, l’ultima stagione senza decreto, la percentuale di stranieri nelle rose era al 55% con un utilizzo che sfiorava il 60%. Dopo il decreto si è arrivati al 61% nei roster e a un utilizzo pari al 65,5%. In questa statistica siamo primi in Europa.
REAZIONI. «Bella e grande fesseria che è stata fatta – si è sfogato a notizie.com Claudio Lotito, patron laziale, senatore di Forza Italia attivissimo sull’argomento –
Più soft nei modi, ma con la stessa dose di preoccupazione, la nota diramata in serata dalla Serie A: «C’è stupore e preoccupazione. Tale decisione, se confermata, avrà quale unico risultato un esito diametralmente opposto a quello perseguito».
La mancata proroga, secondo la Lega presieduta da Lorenzo Casini, «produrrà minore competitività, riduzione dei ricavi, minori risorse da destinare ai vivai, minore indotto e dunque anche minor gettito per l’erario». Tutto questo «lascia supporre che sia prevalsa per l’ennesima volta una visione che purtroppo non tiene conto dello straordinario ruolo economico, oltre che sociale e culturale, che ricopre questo comparto industriale». La Serie A si augura «che il Parlamento possa correggere questo errore».
FUTURO. La Commissione Bilancio e Finanze del Senato, la stessa in cui oggi Lotito gioca un ruolo di primissimo piano, a maggio 2022 (c’era il governo Draghi) aveva approvato un emendamento a firma Nannicini (Pd) che impose due limiti all’utilizzo del decreto, così da proteggere maggiormente i vivai: il primo riguardava l’età di applicazione (20 anni), il secondo la natura del contratto di lavoro (da 1 milione a salire). I presidenti di Serie A per mesi hanno fatto notare come l’introduzione del tetto (che in principio combattevano) avesse ridotto l’abuso: per la stagione 2023-24 sono stati tesserati 50 “impatriati”, meno che in passato. In caso di posticipazione dei termini, il fronte dei contrari all’abolizione sarebbe tornato alla carica chiedendo di innalzare la soglia economica mantenendola per altri 5 anni. Secondo l’Assocalciatori, però, questo avrebbe solo accentuato le disparità tra i club di prima fascia e le medio-piccole. Nel dubbio, Palazzo Chigi è andata al nocciolo della questione: addio decreto, da Capodanno. Fonte: CdS
Fonte: CdS