Se poi le parole sono come pietre, chiaro che facciano male come e più di quello 0-4 che già squarcia l’anima:
«Poi dico la verità: dopo lo scudetto, se
Sarà stato il dolore per una ferita sanguinosa, sarà stata l’ira che a caldo spinge a perdersi nel proprio vocabolario, però quando Napoli-Frosinone è finita si apre un nuovo capitolo, stavolta un pizzico animoso (o velenoso?), che sembra stracci il passato pure un pochino ingenerosamente. L’effetto postumo del trionfo è svanito, e da un po’, e su quel ch’è rimasto del Napoli Walter Mazzarri non è ancora riuscito a metterci qualcosa di suo, se non occasionalmente: ma quattro sconfitte in sette partite sono un’enormità e ormai non basta più ricordare che ci siano stati il Real Madrid, l’Inter e la Juventus e un calendario martellante che non aiuta ad allenarsi, perché il Frosinone ha fatto ben altro, ha impresso un ceffone che lascia i lividi su tutte quelle facce.
FRATTURE. Stavolta, Mazzarri infila le dita nelle piaghe di settimane e mesi, perché la frase non è semplicemente ad effetto, non vuole neppure essere un
«facce di andar via»
sono le espressioni contrite di questo tempo malato che il Napoli vive in quel limbo che annebbia e confonde, che inquieta e che condiziona.
E in quello spazio o nella descrizione devono esserci il contratto – con tutti i punti interrogativi – di Piotr Zielinski e quella tentazione forte, e si chiama Lipsia, che ormai ha avvolto anche Elif Elmas: un terzo del centrocampo che rischia di evaporare, un buco enorme che si aprirebbe in questo 2024 dal quale, per la Coppa d’Africa, svanirà anche Frank Anguissa.
Un gigantesco problema che diventa un’ossessione non semplicissima da domare.
LORO SPIEGANO. Mazzarri l’ha dialetticamente toccata piano (si fa per dire) e in quella frase ci ha infilato – in un’analisi, non in una banale riflessione – il senso di smarrimento di una squadra ch’è ancora campione d’Italia e che però pare finita in conflitto con se stessa. E però poi rimbalzano, impietosi, i difetti strutturali di quest’ultimo quadrimestre, le troppe reti subite a difesa schierata o anche no, per esempio a campo largo, e un calcio che non appartiene più al Napoli e nel quale, nei suoi trentasette giorni, Mazzarri non è riuscito ad incidere, non come avrebbe voluto o come avrebbe sperato, portandosi appresso tutto ciò che aveva studiato dinnanzi alla tv. E così, dalla sera alla sera, dal triplice fischio di Abisso e dai ventimila fischi del Maradona, emerge una verità finita relativamente sotto al tappeto, ch’è polvere ma da sparo, perché indica stati d’animo e quindi responsabilità laterali ma non troppo. «Io le valutazioni le faccio con la società e poi loro spiegheranno».