Luciano Spalletti, tanti colleghi giornalisti, tanti calciatori che lo conoscono, il magazziniere del Napoli e il bravissimo direttore delle comunicazioni della società Nicola Lombardo mi hanno detto tutti molto bene di Giacomo Raspadori. Non solo delle sue evidenti qualità tecniche, ma di quelle umane. Con lui inizio dunque una serie di interviste sui nuovi talenti del calcio italiano. Cercando la bellezza non solo nel talento, ma anche nel modo di ragionare. Su Raspadori, dopo l’incontro, posso solo dire che chi ne parla bene ha ragione.
Lei fa l’università e fa i gol: non sono incompatibili, dunque…
«Siamo sempre di più, per fortuna, a studiare e giocare. Io sto cercando di laurearmi in scienza motorie. Altri, come Pessina, Pobega, Buongiorno e prima ancora Chiellini, hanno dimostrato che non è impossibile far convivere lo sport ai massimi livelli con la propria formazione. Vorrei combattere gli stereotipi sui calciatori: persone senza curiosità, che pensano solo al pallone e ai soldi, senza rilevanti qualità umane. Non è così, mi creda. Sono una persona pratica, molto concentrata sul quotidiano, non faccio voli pindarici. Ma mi piacerebbe dimostrare, in futuro, che i giocatori di calcio possono vivere coltivando il gioco e il sapere, i libri e i calci d’angolo».
Com’era la sua stanza da bambino?
«C’era un letto a castello, dove dormivamo mio fratello ed io. Lui è sempre stato uno stimolo, per me. In quella cameretta erano sparsi tanti palloni. Ma soprattutto, nei nostri discorsi con la porta chiusa, c’erano tanta energia, sogni, voglia di vivere e di costruire il nostro futuro. Sul tavolo le figurine, nella libreria molti volumi. Nostra madre ci ha educato alla bellezza della lettura. Mi ricordo che lei iniziò a leggerci la saga dedicata al calcio da Luigi Garlando».
Come ha cominciato a giocare?
«Per strada, come tutti. Nella piazza del mio paese, Castel Maggiore, fino a tardi la sera. Poi in una società dilettantistica che porta un bel nome “Progresso calcio”. Società seria in cui si insegnano, insieme, tecnica e valori. A undici anni, con una telefonata ai miei, fui trasferito al Sassuolo, dove mi sono trovato benissimo. Ricordo il primo giorno. L’allenatore, Papalato, non conosceva nessuno: mise quelli che vengono chiamati “i cinesini”, cioè dei coni di plastica, per indicare i ruoli previsti e ci disse di scegliere il nostro. Io avevo sempre giocato a centrocampo e presi quello. Lui mi guardò giocare e poi mi disse che il mio posto era quello di centravanti».
Le pesa, in questo calcio fisico, essere così minuto?
«Sinceramente no: mi ha spinto sempre a cercare di evolvere. Se non avevo la struttura fisica degli altri, allora dovevo essere sempre più bravo, sia sul piano tattico che tecnico. Averlo capito presto mi ha portato a lavorarci subito. So che, per restare a un certo livello, ci sono standard anche fisici da rispettare. La bellezza del calcio consente anche di essere maliziosi in certe cose, per colmare centimetri o muscolatura».
Cosa è per lei la Nazionale?
«Solo a parlarne ti emozioni. Poterne far parte ti trasferisce un’energia pazzesca. Sai che stai rappresentando il tuo Paese, migliaia di bambini che avevano o hanno il tuo stesso sogno e che non riusciranno a realizzarlo. Tu sei con l’azzurro addosso anche per loro. Il mio primo ricordo di quella maglia sono i Mondiali del 2006. Avevo sei anni e credo sia, in assoluto e in generale, il primo momento della mia memoria».
Gli Europei cosa sono stati per lei? Aveva vent’ anni o poco più.
«La presa di coscienza di dove ero arrivato, con tanta fatica e tanta passione. Alla prima convocazione, sono entrato in punta di piedi in un gruppo fantastico e abbiamo vinto. E poi, stando lì, ho capito che nulla è impossibile, ho capito che il lavoro, le giornate sotto la pioggia o il vento ad allenarsi, sono servite a raggiungere una vetta così alta. E’ stata un’emozione che vorrei rivivere presto».
Le è successo lo stesso con il Napoli. Lei, con questa immagine gentile ed equilibrata, in realtà ha un temperamento da vincitore?
«Io spero di essere vissuto, anche dai miei compagni, come un leader silenzioso. Credo di portare positività, di riuscire a creare energia. A poco più di vent’anni i “senatori” del Sassuolo e il mister De Zerbi mi hanno dato la fascia da capitano. Forse perché unisco, non divido. Cerco di fare squadra, non navigo in solitaria».
C’è qualcosa che non le piace, nel grande circo del calcio moderno?
«Gli aspetti mediatici, che possono portare a una instabilità in ragazzi come noi. Nel calcio si raggiunge tutto molto velocemente e se non si ha la fortuna di avere attorno persone che ti fanno rimanere collegato con la realtà, ti aiutano a non dimenticare da dove vieni, il rischio di perdersi è molto alto. Passi dal non essere riconosciuto ad avere fama e stare sui media, improvvisamente hai tanti soldi da spendere: se non gestito, tutto questo può portare dei ragazzi in situazioni di difficoltà».
Mi racconta il primo impatto con Napoli?
«Sin da subito essere qui è stato un motivo di orgoglio. Mi avevano cercato Juve, Milan, Inter ma sono felice di giocare nel Napoli, anche per la storia dei calciatori, vorrei ricordare solo Maradona e Juliano, che hanno indossato questa maglia. Io sono ambizioso e sapevo che questo era il luogo giusto: dopo il magnifico tempo trascorso al Sassuolo, avevo bisogno di uscire dalla mia comfort zone, di lottare per uno scudetto e nelle coppe internazionali. All’inizio è stato strano, ma qui c’è energia, si vive la gioia di vivere e si percepisce una passione per il calcio che è febbre e amore vero, collettivo, quotidiano. Sono felice, qui».
Lo scudetto?
«Lo scudetto era nell’aria, quell’energia ci sospingeva. La città fibrillava, e noi con lei. E’ stata una vittoria della squadra, dell’allenatore, della società. Ma anche di tutta la città: si percepiva un desiderio comune, un’attesa vissuta in ogni casa che poi è diventata gioia collettiva».
Quest’anno invece cosa c’è che non va?
«Non credo ci sia qualcosa di particolare. Penso sia fisiologico, dopo la vittoria dello scudetto. Non è un alibi, ma l’anno scorso è stato emotivamente dispendioso, non siamo abituati a vincere, non abbiamo sempre la cattiveria che discende da quella convinzione. Dobbiamo ritrovarla, ci stiamo lavorando. Siamo una grande squadra. Non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo mai».
Quale è stato l’allenatore più importante della sua vita?
«Sono stato fortunatissimo, ho trovato sempre allenatori di alto livello, anche dal punto di vista umano. Se devo dirne uno, non posso che ricordare Roberto De Zerbi. Lui mi ha fatto esordire in A e mi ha sempre dimostrato una fiducia incondizionata. A un certo punto si pensava fosse giusto che andassi in prestito in Serie B. Lui si oppose, mi ha sempre voluto al centro dei suoi progetti. Con De Zerbi mi sono reso conto delle mie possibilità. Se non avessi incontrato uno come lui, il mio destino forse sarebbe stato differente».
A quale giocatore si è ispirato?
«Aguero. Sia per caratteristiche fisiche che per modo di stare in campo. Poi Di Natale, Rooney, Tevez».
C’è un giorno della sua carriera che vorrebbe rivivere e uno che, se potesse, cancellerebbe?
«Sì. E sono lo stesso giorno. Quello della mancata qualificazione della Nazionale ai Mondiali. Vorrei non tornasse per non rivivere quel dolore. E, al tempo stesso, vorrei che tornasse per poterlo cambiare. Non dimentico il silenzio terribile dello spogliatoio dopo la partita. Non aver dato a milioni di persone la gioia di godere dei Mondiali è stata una delusione devastante, che ci ha lasciato un senso di colpa. Si deve imparare, anche dalle sconfitte. Non si vince sempre, né nello sport né nella vita. Ma siamo un gruppo forte e coeso, con un grande c.t., ci rifaremo».
Il talento si educa, si raffina?
«Sì, si educa. Certo, ci deve essere una base, un’ispirazione. Ma io appartengo alla corrente filosofica, nel calcio, di chi pensa che il talento sia poco, se non è accompagnato dalla durezza del lavoro. La più grande fortuna di chi ha talento è di averne coscienza e, per questo, ha la disponibilità a lavorarci su, a disciplinarlo proprio per farlo emergere. Se hai un dono, devi sfruttarlo. Devi coltivarlo ogni giorno, magari pensando alla fatica di chi quel talento non ce l’ha».
Lei ha parlato con Fagioli e Tonali dopo la vicenda delle scommesse?
«No, non ho avuto modo. Ma sono due ragazzi di qualità umana, non solo calcistica, e ne usciranno presto e bene. Vale quello che dicevo prima: la velocità del successo può determinare varie reazioni, compresa la sensazione di non avere limiti, e può far perdere la strada anche ai migliori».
Qual è il suo gol che ricorda con più piacere?
«Non ho dubbi: quello a San Siro con la Nazionale nella partita di Nations League contro l’Inghilterra. Anche perché allo stadio c’erano i miei genitori».
Che lavoro fanno? Si ricorda qualcosa che le abbiano detto, un insegnamento particolare?
«Mia madre è impiegata, mio padre si occupa del controllo di qualità in un’azienda. A loro debbo molto. Mi hanno sempre detto che la loro felicità era legata alla mia. Non al mio successo, alla mia felicità. Hanno sempre lasciato me e mio fratello liberi di scegliere quello che desideravamo. Sapevano che l’avremmo fatto sulla base di principi etici. Questo non costringerci a nulla, ovviamente, ci ha molto responsabilizzato. Loro sono stati la mia, la nostra, fortuna».
Ora tocca a lei diventare padre. La sua saggezza mi fa dire che non è presto.
«Sì, a maggio. Siamo a metà strada. A Natale sapremo se è maschio o femmina. Io sono così di carattere. Senza esagerare ho sempre voluto avere le cose della mia vita sotto controllo. Questo è il passo più importante della vita della mia fidanzata e mia. Spero di essere all’altezza e di poter dare sempre un buon esempio alla creatura che verrà».
Fonte: CdS