La STORIA di Juliano raccontata da Mimmo Carratelli: “IL CAPITANO NATO DUE VOLTE”

Antonio Juliano, affettuosamente per tutti Totonno, è scomparso ieri a Napoli all’età di 80 anni. Affetto da tempo da una malattia degenerativa – era ricoverato in  ospedale -, il 26 dicembre avrebbe compiuto 81 anni. Leggenda del Napoli, di cui è stato capitano e poi dirigente, ha vestito la maglia azzurra dalla stagione 1961-1962 alla stagione 1977-1978, collezionando 3 campionati di Serie B e 14 di Serie A. E ancora: ha giocato in Coppa delle Coppe, Coppa Uefa e Coppa delle Fiere (l’antenata dell’Uefa). Con il Napoli ha conquistato due Coppe Italia (1961-1962, 1975-1976); una Coppa delle Alpi (1966); una Coppa di Lega italo-inglese (1976). È secondo di tutti i tempi nella classifica delle presenze con il club azzurro in tutte le competizioni (505, con 38 gol) e terzo in quella della Serie A (355; 394 con la B). Ha chiuso la carriera con il Bologna dopo la stagione 1978-1979 (19 presenze, 2 gol). Con la Nazionale vanta 18 presenze con tre convocazioni al Mondiale (1966, 1970, 1974), l’argento nel ‘70 e il titolo di campione d’Europa nel ‘68. I funerali avranno luogo oggi alle 12 nella chiesa di San Giuseppe a Chiaia. La Figc ha disposto un minuto di raccoglimento su tutti i campi prima delle partite del weekend.

 

Capitano, mio capitano, è arrivato il giorno che temevo in tutti questi anni in cui eri fuggito dalla realtà e in un modo tutto tuo non potevamo più parlarci, Clory mi diceva non ti riconoscerebbe e io le dicevo abbracciamelo forte. Ai nostri tempi eri stato il paladino più splendido della storia azzurra, un ragazzo esemplare cresciuto nel rispetto delle regole e degli affetti, il patrimonio umano e civile delle famiglie napoletane del ceto umile nel dopoguerra. Legami solidi e concreti che, in quegli anni difficili, hanno prodotto una generazione di veri napoletani.

Alla base del successo di calciatore di Juliano c’è stato questo retroterra che ne illuminava e ne esaltava il carattere e la fortuna. Nel mondo fatuo e stralunato del calcio, Juliano rimase sempre fedele alle sue origini solide diventando prima di tutto un campione di serietà e dedizione. Un napoletano atipico, lo descrisse Antonio Ghirelli, perché contraddiceva lo stereotipo del napoletano chiassoso, ruffiano, facilone e sentimentale.
Un giorno, parlando degli anni che erano passati, una sua frase mi colpì in modo particolare. «Mio padre ha vissuto 82 anni. È stato un uomo saggio e un educatore esemplare. Devo tutto a lui. Vorrei vivere quanto ha vissuto lui, non un giorno di più, perché io non sono stato migliore di mio padre». Antonio si è spento a 80 anni.
Giocava un calcio concreto, senza egoismi né teatralità, senza le mattane dei funamboli perché aveva altre grandi virtù, una soprattutto, aveva l’innata dote del condottiero: una forte presenza in campo, esempio di passione e impegno, il ruolo che si creò con un duro lavoro e molti sacrifici. Perché sentiva il dovere, lui napoletano fra assi stranieri e giocatori di varie provenienze, di rappresentare Napoli nel modo migliore, alla sua maniera di napoletano atipico: serio e irriducibile difensore della maglia azzurra, “capitano” nel vero senso della parola, e perciò anche paladino, nello spogliatoio, dei diritti e delle attese dei compagni di gioco, ma anche di tutti quanti lavoravano nel Napoli, magazzinieri, calzolai, inservienti, tutto il mondo dello spogliatoio, attento Totonno perché non fossero esclusi dai benefici economici destinati alla squadra. Insomma, un leader. Un fratello maggiore di tutti, ma un fratello che pretendeva impegno e rispetto come e quanto ne dava lui.
Il pubblico non ne apprezzava fino in fondo le qualità. Lui stesso diceva: «Io gioco per il venti per cento di quelli che vengono allo stadio, quelli che vanno al di là delle apparenze». Ezio Vendrame, capellone e piedi di fantasia, di un angolo del Friuli, Casarsa in provincia di Pordenone, quando venne a giocare nel Napoli gli dedicò un’ode illuminante: «Oh capitano, mio capitano! Mio esempio, mio orgoglio, mio vanto. E pensare che prima di conoscerti, quando giocavo contro di te, mi stavi proprio sul cazzo! Ti ritenevo arrogante, presuntuoso, superbo. E soltanto io so come e quanto mi sbagliavo. Ora, alla tua grande professionalità così diversa dalla mia potrei anche sputare sopra, ma per la tua grande disponibilità verso i più deboli ti nomino mio capitano per sempre. Me li ricordo bene quei due vecchietti che avevano il compito di magazzinieri e quell’altro che alle nove di ogni mattina ci accoglieva sorridente allo stadio con il caffè bollente e aromatico preparato con la sua Moka. La “bassa forza” li chiamavi tu, “gli ultimi” li chiamo io. E non erano numeri e nemmeno parti d’arredo degli spogliatoi del San Paolo, erano persone che tu con orgoglio hai sempre voluto rendere visibili a tutti noi».
Li ricordo bene quelli della “bassa forza”, Gaetano Masturzo che portava il caffè, Franco Di Meo, Scarpitti, Albano. E Beato, il massaggiatore con le mani di acciaio. Ti stringeva la mano da toglierti il respiro e poi ti lasciava nel palmo della mano una caramella. Ricordo la Madonnina che c’era all’ingresso dei vecchi spogliatoi del San Paolo. «Quando andavamo in campo, i magazzinieri si fermavano a pregare perché vincessimo. I premi-partita li ho fatti sempre dividere con loro» mi diceva Antonio.
Juliano è nato due volte. In piena guerra. Fra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. Tempi confusi, tempi di orrori. Il 4 dicembre 1942 Napoli subì il primo di cento devastanti bombardamenti. Alle 16,45 gli aerei americani sbucarono da Capri e rovesciarono sulla città il loro carico di bombe. I morti furono 359, i feriti più di trecento. Due tram furono colpiti in pieno. Nel porto saltò in aria l’incrociatore “Muzio Attendolo”. Fra lo strepito delle sirene e le corse nei rifugi antiaerei, grotte e cavità, non si viveva più. Tutto divenne assurdo, precario, difficile, mostruoso. Ecco perché quando Antonio Juliano nacque il 26 dicembre 1942 le difficoltà di quei tempi costrinsero i genitori a denunciarne la nascita l’1 gennaio 1943, la sua data ufficiale all’anagrafe. Diceva Antonio: «Non ci ho guadagnato nulla. Ho fatto il militare a 28 anni. A un certo punto richiamarono tutti. Ci trovammo alla Cecchignola. Con Zoff, Riva, Domenghini ero tra i più vecchi. Gli altri avevano vent’anni».
Prima di diventare uno dei grandi centrocampisti dell’epoca che annoverò Rivera, Bulgarelli, De Sisti, Antonio fu un micidiale calciatore di strada che infrangeva a ripetizione l’edicola votiva della Madonna dell’Arco in via Ottaviano a San Giovanni a Teduccio, dove viveva, centrata dal pallone che scagliava. «Andammo via dal quartiere dopo un mare di quattrini che i miei pagarono per riparare l’edicola. Giocare a pallone riempiva il cuore e dava la speranza di sottrarsi a un futuro mediocre». Il padre aveva una salumeria. Antonio rimase a San Giovanni fino ai sedici anni. Poi si trasferì con la famiglia a Poggioreale dove il padre aprì un nuovo negozio di alimentari.
«San Giovanni è stata una scuola di vita – mi raccontava –. Lì ho capito che cos’erano i sacrifici. Eravamo tre figli, io e due sorelle. Non ricordo che ci mancasse qualcosa. Il perché l’ho capito dopo. Non ricordo di avere visto mai mio padre e mia madre andare al cinema. La casa, i figli, il lavoro, questa era la loro vita. A me pagavano pure la scuola privata».
Il calcio di quei tempi. I ragazzi del Napoli si allenavano su un campo vicino al cinodromo di Agnano. Entrare in quella squadra era il primo gradino importante. Fu Giovanni Lambiase, il talent-scout di quell’epoca, a portarci Antonio convincendo i suoi genitori. Antonio aveva dodici anni e, da San Giovanni, doveva prendere tre autobus per arrivarci. Da ragazzino della Fiamma Sangiovannese passò al Napoli in cambio di un paio di palloni e di una muta di magliette.
Roberto Lerici, un allenatore che passò per Napoli all’inizio degli anni Sessanta, gli insegnò a “rubare” i segreti dei grandi giocatori. Nel Napoli giocava un grande talento brasiliano, Manuel Del Vecchio. Lerici diceva a Juliano: «Non ti stancare di guardare Del Vecchio, guarda come si muove, come difende la palla, come la calcia, guardalo e imparerai molto». Imparò, Juliano, con una applicazione costante. Il carattere orgoglioso e la predisposizione ai sacrifici completarono la sua personalità di campione.
«Devo tutto a Pesaola – mi disse un giorno –. È stato l’uomo più importante nella mia carriera». Il Petisso lo fece debuttare in prima squadra a 17 anni in una partita di Coppa Italia contro il Mantova (31 maggio 1962) e poi in serie A contro l’Inter (17 febbraio 1963). Sedici campionati in maglia azzurra, 506 partite, 394 di campionato, 73 in Coppa Italia, 39 nelle Coppe europee. Ventisei gol. A un soffio dallo scudetto con il Napoli allenato da Vinicio. Quel traguardo mancato gli fece sempre pensare che, una volta smesso di giocare, sarebbe rientrato nel Napoli da dirigente per vincere il campionato. Fu così che portò Krol al Napoli e poi Maradona superando i dubbi di Ferlaino per il costo del giocatore. Prima di concludere, a Barcellona, il trasferimento del pibe con un colpo di mano e tutta l’astuzia napoletana, Ju liano ebbe dall’Ingegnere un biglietto in cui gli raccomandava di valutare bene l’operazione perché con i soldi che sarebbe costato Diego si sarebbero potuti prendere cinque calciatori. I nomi di quei cinque Juliano non li ha mai voluti svelare. Restano un segreto su un foglietto di carta.
Incontrandoci mi diceva: «A San Giovanni torno di rado e quando ci vado non riconosco né posti né persone. È tutto cambiato». Antonio viveva in una bella casa a Posillipo con giardino. «Devo ringraziare mia moglie che insistette per comprarla. Alla fine, se devo dire la verità, lei è stata il vero incontro fortunato della mia vita». Lei è Clorinda, Clory, una donna assennata, ma sbarazzina se confrontata con l’eterna serietà di Juliano che, poi, quand’era tra amici sapeva essere allegro e ironico, divertente e pungente, la battuta facile. Il figlio Marco fa l’architetto, Barbara la psicologa l’ha reso nonno, Andrea soltanto ha tentato il mestiere del padre, calciatore lontano da Napoli.
I ricordi sono tanti. Il titolo di campione europeo con la nazionale del 1968. I tre Mondiali cui ha partecipato (1966, 1970, 1974). In Messico giocò gli ultimi 17 minuti della finale contro il Brasile sostituendo Bertini. Nel 1974 in Germania rimase in panchina dopo avere rischiato l’espulsione dai ranghi azzurri per una violenta sparata a Coverciano, né la prima, né l’ultima, sui giocatori del Sud penalizzati nei confronti dei colleghi che militavano negli squadroni del Nord. «Era così – raccontava. – A me dicevano: vieni all’Inter, ti difenderanno tutti e giocherai sempre in nazionale. Zoff divenne titolare in nazionale dopo che passò alla Juventus pur avendo debuttato quand’era nel Napoli. Giocava sempre Albertosi. Cannavaro e Ferrara hanno avuto fortuna lontano da Napoli».
Col Napoli , Juliano vinse la Coppa Italia del 1976. «All’Olimpico di Roma battemmo in finale il Verona allenato da Valcareggi. Vincemmo nell’ultimo quarto d’ora dopo avere dominato. Sugli spalti fu un trionfo di bandiere azzurre. Ricordo l’Autostrada del Sole al ritorno. Noi sul pullman della società e centinaia di auto di tifosi che ci scortavano. L’ingresso in via Marina, dove c’era una gran folla di tifosi che ci aspettava, fu un autentico trionfo».
Ricordava ancora: «Gli anni più belli del Napoli furono quelli con Vinicio allenatore. Andammo a sfidare la Juventus per lo scudetto. Ferlaino aveva ceduto Zoff e Altafini al club bianconero. Ci castigarono proprio loro due. Fu l’occasione in cui avrei potuto segnare due gol e sarebbe stato scudetto. Battei Zoff con un tiro di esterno destro da fuori area che finì nell’angolino. Pareggiammo così il gol di Causio. Poi feci un tiro all’incrocio dei pali ancora da fuori area che Dino volò a parare. Potevamo passare in vantaggio. Altafini a due minuti dalla fine ci condannò».
Conservava la sua maglia numero 8. Dentro palpitava la sua anima azzurra. «Parliamo di cose serie» mi disse una volta. Aveva quell’accenno di sorriso ironico che mi preparò alla battuta. Disse: 1Ma tu lo sai perché mi hanno sempre chiamato Totonno? Totonno sta per Salvatore, non per Antonio».
Ricordo la sua dedizione assoluta, la sua piena disposizione al sacrificio. Fu la mezzala che il Milan avrebbe voluto (1969). Ferlaino fu tentato di cederlo perché il club rossonero offriva 800 milioni. Temendo una rivolta dei tifosi, chiese a Juliano di dichiarare che voleva andar via per una squadra più forte. Totonno rifiutò di prestarsi al gioco e la trattativa andò a monte.
Nel campionato ’77-’78, dopo un clamoroso rovescio casalingo del Napoli col Vicenza (1-4), Ferlaino ordinò un ritiro punitivo agli azzurri. Juliano si oppose e se ne andò a casa dicendo: «Giocherò le ultime partite e la finale di Coppa Italia e poi smetto». Soffriva di tendiniti e talloniti, giocava sul dolore, non voleva esser trattato come l’ultimo pivello. Aveva 35 anni, ma ancora molte energie. Il Napoli perse la finale di Coppa Italia contro l’Inter (1-2). Di Marzio, divenuto allenatore sulla panchina azzurra, assicurò a Juliano la conferma per l’anno successivo. Invece, a sorpresa, venne proposta ad Antonio la direzione del settore giovanile. Replicò: «Se devo smettere di giocare, lo decido io. Datemi la lista che mi trovo una squadra». E andò al Bologna allenato da Pesaola per giocare un altro anno ancora.
Dopo sedici anni di assoluta fedeltà, lealtà e impegno, questo fu lo strappo che allontanò Juliano da Napoli. Le partite che giocò da ex contro il Napoli si chiusero con un pareggio a Bologna (1-1) e con la vittoria degli azzurri per 2-1 al San Paolo.
Juliano ricomparve nel Napoli due anni dopo chiamato da Ferlaino a ricoprire il ruolo di direttore sportivo. Confessò: «Sono stato sempre presuntuoso. Non avevo vinto lo scudetto da giocatore, volevo vincerlo da dirigente». Ingaggiò Krol andando sino a Vancouver per convincere il giocatore olandese a trasferirsi a Napoli. Con Marchesi allenatore, conquistò un brillante terzo posto (1980-81). La squadra era questa: Castellini; Bruscolotti, Marangon; Guidetti, Krol, Ferrario; Damiani, Vinazzani, Musella, Nicolini, Pellegrini.
Il feeling con Ferlaino era nullo e il rinnovo del contratto a Marchesi, sottoscritto dal presidente all’insaputa di Juliano, troncò la collaborazione. Totonno sbottò: «Qui comando io, altrimenti me ne vado». E se ne andò.
Tornò nel 1983 chiamato dall’ingegnere Marino Brancaccio, presidente temporaneo, col Napoli in lotta per non retrocedere. Il Napoli si salvò e Ferlaino, tornato in sella, confermò Juliano per l’anno dopo (1983-84) col calcolo di mettersi al riparo di una “bandiera” contro le contestazioni della piazza. La collaborazione durò due anni, sempre tempestosa. Caratteri assolutisti e orgogliosi, diffidenti, non potevano incontrarsi mai.
Juliano centrò l’acquisto di Maradona con uno stratagemma (dopo 40 giorni di trattative in Spagna si infilò nella casa del vicepresidente del Barcellona Gaspart e concluse il trasferimento) convincendo Ferlaino a non mollare l’acquisto del pibe de oro. Con Maradona nuova vita, ma, alla fine della stagione ’84-’85, il primo anno di Diego a Napoli, nuovo divorzio tra Juliano e Ferlaino.
Nel 1998-99, l’ultima esperienza di Totonno nel Napoli (Ferlaino ancora proprietario del club azzurro). La squadra era in serie B e fallì la promozione con Ulivieri allenatore e 15 acquisti. Dimissioni di Juliano e Ulivieri prima della fine del campionato. Disse Totonno: «Ho sbagliato le valutazioni sui giocatori da prendere. In serie A era facile, in serie B no, un ambiente nuovo per me». Pagò in gran parte le scelte tecniche che fece Ulivieri, l’allenatore che lui stesso aveva assunto.

A cura di Mimmo Carratelli, CdS

 

 

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