Ma ad un certo punto, mentre la voce s’è increspata, nella Sala dei Baroni è calato il silenzio: e gli occhi (luciferini) brillavano, forse erano lacrime, e quell’uomo solo, accartocciato nei propri pensieri, tossiva. «Sono emozionato». Due anni per avventurarsi nel proprio tour dell’anima e scoprire che forse c’era ancora un Mondo che non aveva scoperto; due anni per prendere la Storia e scriverla di pugno proprio, ma trasformandola poi in Leggenda; due anni che non si dimenticano mai più: «Sono official scugnizzo». Quando Luciano Spalletti sente vibrare il Maschio Angioino e il sindaco Gaetano Manfredi gli conferisce la cittadinanza onoraria, Napoli non è più solo sull’avambraccio sinistro ma è un tatuaggio che lo domina per intero, è un sentimento diffuso che impregna l’aria: «C’è stato subito un legame meraviglioso tra me e la città. Questa è casa mia, non ne ho ancora acquistata una ma è una cosa che può succedere. Questo premio, questo riconoscimento ha un significato umano enorme, è una gioia che va oltre: me l’hanno regalata i miei ragazzi, i calciatori di una squadra fortissima che hanno realizzato questa impresa».
TURBATO. Non può essere una giornata normale perché nell’espressione di Spalletti, in un Maschio Angioino ch’è colmo d’affetto, s’avverte il turbamento per quell’adorazione collettiva che non sfiora neppure lontanamente il fanatismo ma è semplicemente gratitudine: «Sono io che dico grazie a Napoli, per quello che mi ha donato, per avermi fatto conoscere giocatori che sono stati uomini veri. A loro ho dovuto dir poco, spiegare dove eravamo e per chi provavamo a vincere il campionato. Ci sono riusciti, sono stati fantastici».
POPCORN E HORROR. E però in una mattinata del genere, con protocolli, con la Laudatio di Bruno Siciliano, professore di Robotica alla Federico II e con De Laurentiis in prima fila, c’è anche bisogno di un po’ di leggerezza, sorvolando sul perché di quell’addio («è una cosa che è dispiaciuta anche a me, ci sarà bisogno di più tempo: diciamo che volevo presevare la bellezza») e poi di dotarsi di quella sferzante ironia che serve per dibattere con De Laurentiis. È un ping-pong dialettico avvincente, all’ultimo scambio, con Adl che incalza («ora che è cittadino onorario, ogni volta che avremo bisogno di una consulenza, non potrà tirarsi indietro e tradirci») e Spalletti che, dominando il campo, gonfia di sorrisi le sue “dolcissime” stoccate accolte con un boato generale: «Con il presidente finisce sempre così, come in un film horror: tu sei seduto in poltrona, hai i popcorn e la Coca-Cola in mano, sei convinto che quella sia l’ultima scena, in cui prenderai la paura più grossa. E invece no, perché poi a sorpresa eccola che ne arriva un’altra e ti cade tutto addosso». Ma la sua Napoli è pure un rimpianto, mica piccolo, perché mentre scende le scale della Sala dei Baroni, e quasi gli tocca pure officiare un matrimonio, il pensiero di quelle notti – il 4 maggio o il 4 giugno, non ci sarebbe stata differenza – rimane avvolto in un velo di malinconia: «Mi è mancato il giro sul pullman in città, sfilando tra i tifosi. Ho provato ad immaginarmelo, ma non sarebbe stata la stessa cosa». Le lacrime non avrebbero incontrato barriere e Napoli sarebbe stata comunque sua per sempre.
Fonte: CdS