CorrSport – “Bentornati all’inferno di Santiago”

“La “prima” del Napoli fu con Diego Armando Maradona e senza popolo. Era il 16 settembre del 1987. A volte non chiudono solo le bettole. Può capitare persino alle regge. E il Santiago Bernabeu lo era, lo è. «Los comemos», li mangiamo: aveva strillato Diego il giorno del sorteggio. Era l’andata dei sedicesimi di Coppa dei Campioni: 2-0 per il Real, gol di Michel e autorete di Fernando De Napoli. Al San Paolo, un decollo da sballo e un atterraggio da incubo. Al blitz di Giovanni Francini rispose l’avvoltoio, Emilio Butragueño: 1-1. Go and stop.

Si torna domani sera, al Bernabeu. Nuovo e antico, nei secoli. Tetto mobile e campo retrattile, cultura e tortura. Da noi ci si azzuffa per San Siro; ci si scanna per gli impianti di proprietà; ci si ciba di slogan, di dirigenti che non lasciano tracce e di tracce che non lasciano impronte.
Raccontare mattone e pallone è un po’ come sondare la nostra educazione sentimentale (quanti flirt nati in curva), e condividere l’infanzia delle nostre emozioni. Santiago Bernabeu è stato presidente del Real all’epoca di Francisco Franco e Francisco Gento. Costruita presso la stazione ferroviaria di Chamartin, l’arena gli venne intitolata, da vivo, nel 1955. Jorge Valdano ne ha descritto il «miedo escenico», quel panico che il Colosseo soffocante e berciante incute negli “schiavi” di turno, smorzato – ma non cancellato – dagli appelli al Var.
Al Bernabeu si è fatta la storia. Anche la nostra. Gli dobbiamo tanto. Non solo la corona mondiale del 1982, affidata da Marco Tardelli alla magia sonora di un attimo. Penso alla prima sconfitta casalinga del Real in Europa, firmata nel 1962 dalla Juventus di Omar Sivori. Alla biglia che colpì Beppe Bergomi, senza che l’Inter ne ricavasse i benefici della lattina di Mönchengladbach. Al Milan di Arrigo Sacchi che, in attesa di calare un memorabile 5-0, si presentò nella tana dei Blancos sfondando il muro delle convenzioni e spingendosi oltre, molto oltre, l’uno pari del tabellino. Lodovico Maradei, grande giornalista della “Gazzetta dello Sport”, parlò di «evoluzione» e non di «rivoluzione». Ce n’era abbastanza per brindare alla svolta, eppure a qualcuno non andò giù, non bastò.
Anfield sa di rosso, di riscossa proletaria; Old Trafford resta sospeso tra fusoliere e incantesimi; il Camp Nou è sempre lì che sbandiera l’indipendenza della sua saga, della sua gente. Ogni stadio è cemento armato e amato, ha segnato generazioni. Ce ne sono alcuni che, come a Santiago del Cile, servirono da cimiteri; e altri, come l’Heysel, che cimiteri diventarono.
Se Wembley è di tutti – e, quindi, di troppi – il tempio del Madrid troneggia dall’alto di una monarchia che divora le guerre di successione. Non è un semplice indirizzo: è la meta alla quale si tende sin da ragazzi, non importa se credenti o creduloni. «Lo stadio – scriveva Albert Camus – è l’ultimo posto dove mi sento innocente». Ecco: sulle rive dello Stige non si chiede l’innocenza, né aiuterebbe. Siliconato e griffato, il Bernabeu non è la fine del mondo. È l’inizio dell’inferno”.

 

 

 

 

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