Guai a pensare che le mansioni istituzionali da vicepresidente della Lega Pro ne abbiano imbrigliato la classe. Gianfranco Zola non la esercita più nelle forme di un tempo, ma non l’ha mai persa. Adesso la sfrutta quando si confronta coi più giovani: due giorni fa è stato a Bari con i ragazzi della Rappresentativa Under 16. «Il rapporto con le nuove generazioni è la cosa a cui tengo di più, nonché il motivo che mi ha portato ad accettare l’incarico con entusiasmo».
A proposito di estro, nello stadio di Maradona si sfideranno Leao e Kvaratskhelia.
«Saranno senz’altro l’ago della bilancia con i loro strappi, gli unici in grado di generare quel lampo per cambiare la partita. Li trovo molto simili, con la differenza che Rafa è più bravo in campo aperto e il georgiano invece se la sa cavare bene anche nello stretto. Un tridente con entrambi sarebbe da sogno».
Napoli-Milan è ancora un duello per lo scudetto?
«Assolutamente sì, le inserisco tra le quattro grandi candidate insieme a Inter e Juve, mentre Roma e Lazio sono un gradino più dietro».
Se ne dovesse scegliere una su tutte?
«L’Inter. Ha una rosa più profonda e ricca di qualità in ogni reparto, è in ottima forma e si esprime con buona continuità da mesi. Tuttavia, da anni è la favorita di inizio stagione…».
Spesso ha detto che il numero 10 non esiste più. Guardando Leao e Kvara, non è che si è soltanto “allargato” il concetto?
«Piuttosto direi che si è adattato. Il giocatore squisitamente tecnico sarà sempre una componente fondamentale del calcio. Dove può esprimersi invece è una variabile soggetta a squadra, allenatore e momento storico. Oggi i fuoriclasse si trovano sulle fasce, ai miei tempi, a parte Bruno Conti e altri rari casi, giocavano tutti nel mezzo, affinché fossero più incisivi».
Al centro dell’attacco, proprio dove mancherà il cannoniere Osimhen.
«È una perdita pesantissima per il Napoli, parliamo di uno dei migliori attaccanti al mondo. Ecco, lui è perfetto per il calcio attuale, interpretato con baricentri molto alti. Le sue doti atletiche e di finalizzatore lo rendono una macchina perfetta per aggredire gli avversari sulla profondità».
Cosa deve fare un allenatore come Garcia per riprendersi il Napoli?
«Mantenere l’equilibrio interiore e non è per niente facile. Rudi però è un professionista esperto, sa bene che situazioni simili fanno parte del mestiere. L’allenatore purtroppo è sempre un po’ più solo, rispetto ad altre figure».
Che indicazioni si possono trarre dalle prime tre giornate di Champions?
«L’Inter sta facendo molto bene, anche il Napoli può ritenersi soddisfatto. Lazio e Milan stanno faticando di più, ma i rossoneri hanno un girone davvero troppo complicato. Nel complesso ce la stiamo giocando, il movimento italiano è in crescita e stiamo mantenendo il trend. È un periodo incoraggiante».
Nella Liga i classe 2006 segnano nel Barcellona, da noi in Serie C. Perché?
«Culturalmente non siamo pronti a gestirli. I giocatori fino ai 18 anni non sono pronti da nessuna parte del mondo. Solo che all’estero si coltivano. L’errore è accettato, quasi ricercato, come componente di un percorso di maturazione. Ferguson faceva sempre così. Metteva i ragazzi in condizione di sbagliare, poi li toglieva dal campo e li riproponeva in un altro momento, finché non succedeva più. In Italia siamo troppo attaccati al risultato e al presente, senza ragionare su un termine più lungo. L’investimento più difficile non è di soldi, ma di tempo».
Come ha vissuto le notizie relative al caso delle scommesse?
«Con immensa tristezza, perché sono un innamorato dello sport e immagino cosa stiano vivendo le persone coinvolte. Sono ragazzi, come lo siamo stati tutti, e hanno avuto comportamenti impropri. Può capitare, l’importante è che sappiano assumersi le responsabilità, voltare pagina e ricavare degli insegnamenti per la vita. Se si tratta di una malattia, può colpire chiunque e bisogna curarla, e come tale non va strumentalizzata».
Ha visto il calcio con tante vesti diverse: come si fa una rivoluzione in tre mosse?
«Il primo passo sono i giovani e la formazione, l’Italia è sempre stata una scuola rinomata, soprattutto per difensori e centrocampisti. Il secondo sono le strutture, quindi stadi e centri sportivi: sono impianti che non sono pensati per i tifosi, sono poco “user friendly” e anche per questo non costituiscono una fonte di ricavi per tante società. Infine, la presenza delle istituzioni. Spesso si rifiuta di considerare il calcio come una risorsa per il nostro Paese, quando invece è proprio così».
A cura di Salvatore Malfitano (Gazzetta)