Ottavio Bianchi festeggia domani 80 anni. «Mica mi vorrà fare già gli auguri? Porta male farli prima». Chi dice che è stato un grande allenatore ha ragione ma significa che non l’ha visto giocare al fianco di Sivori, Altafini, Juliano, Cané negli anni 60 e 70. «Starò a casa con i miei figli. Ma senza festa. Che c’è da festeggiare? Sono ottant’anni, sono tanti. Ma non ci penso. E mi torna in mente il motto che ho imparato a Napoli: “San Genna’, futtetenne”». È un signore del nostro calcio, l’uomo che portò gli azzurri a giocare in amichevole nella sua Brescia e, dopo aver ricevuto insulti razzisti, trasferì la famiglia a vivere a Bergamo Alta.
Signor Bianchi, sono volati questi anni?
«Sì, mi sembra ieri che andavo nella tipografia del Giornale di Brescia a trovare mio padre che lavorava lì e che mi faceva leggere in anteprima il quotidiano del giorno dopo. Io andavo a leggere i tabellini delle pagine dello sport».
Avrebbe fatto il tipografo se non avesse fatto il calciatore?
«Ma no, il ragioniere. Era tutto pronto, andavo all’oratorio ma poi dopo subito sui libri perché studiavo al Battisti di Salò. Però quella passione per il pallone mi ha sempre travolto. A 13 anni già portavo i soldi a casa, perché mi ingaggiavano nei tornei sei contro sei che si giocavano per la strada. Misi su un bel gruzzoletto».
Suo padre lavorava al Giornale di Brescia ma lei i giornalisti non li ha mai amati.
«Vero, più forte di me. Solo con pochi sono riuscito ad andare d’accordo negli anni e infatti sono quelli che ancora sento. È uno dei pochi consigli che non ho mai seguito del mio maestro, Bruno Pesaola. Il Petisso, tra una sigaretta e un’altra, mi diceva che dovevo fare come lui, prendere in giro i giornalisti, dirgli delle bugie, una dopo l’altra, tanto loro non avrebbero capito e sarebbero andati via felici».
Lei invece?
«Zero. Non ce la facevo a inventare. Era una cosa che non faceva parte del mio modo di essere. Se non volevo rispondere a qualche domanda fastidiosa, rispondevo a muso duro, in maniera quasi sgarbata. E allora Pesaola mi rimproverava, diventava severo: Ottavio, allora sei duro di testa? Se tu pensi una cosa, dici l’esatto contrario, ma parla sempre».
Bella coppia di amici.
«Per me anticipava la cena dalle 23 alle 21. Che per un uomo del Nord pure era un orario impossibile. Ma mai ho saltato un appuntamento. Un giorno ero reduce da una discussione in una conferenza stampa e lui mi raccontò di quando per far contento un giornalista che lo martellava chiedendogli qualche dritta su un nuovo acquisto, si inventò di sana pianta il nome di un sudamericano. Il giornalista abboccò, anche perché allora non c’era il web per controllare. E lui si divertiva come un matto a raccontare questo aneddoto».
Lo scudetto con il Napoli il giorno sportivo più bello della sua vita?
«No, il giorno più felice fu quando rimisi piede in campo dopo un infortunio praticamente al debutto, a 17 anni, in Brescia-Como. Lesione del crociato. Due anni senza giocare e senza sapere se potessi tornare in campo, tra un ospedale e un altro. Era un calcio diverso da quello di adesso e quello che mi ruppe il ginocchio non prese neppure un cartellino giallo: ora sarebbe squalificato a vita. Ha presente Goikoetxea su Maradona? Ecco, fu la stessa cosa. Però in quei mesi di ospedale prima e riabilitazione poi sono diventato Ottavio Bianchi».
Che ruolo ha avuto Napoli nella sua vita?
«Vivere in quella straordinaria città è stato il dono più grande che mi hanno fatto. Perché non c’è giorno in cui io non abbia imparato qualcosa dai napoletani, un popolo che non si fascia mai la testa, che non si lamenta mai di nulla, che sa come godersi la vita anche nelle piccole cose. Le lezioni di vita che ho imparato nei vari anni sotto al Vesuvio mi hanno aiutato anche come genitore, non solo come allenatore».
Era davvero così difficile avere a che fare con Maradona?
«No, era semplicissimo. Il problema era sempre avere a che fare con chi pensava di essere Maradona. Quelle erano le vere rogne».
Ha marcato anche Pelé, giusto?
«Certo, il Napoli era in tournée in Usa, avevano dei dubbi se tenermi o no dopo un altro infortunio al ginocchio. E mi dissero: tu marchi O Rey. Bel modo per aiutarmi, pensai. Ma fu un duello fantastico, aveva uno stacco fenomenale e giocava di destro e sinistro. Mi tennero pure l’anno dopo».
Amici nel calcio?
«Pochi, forse nessuno. Francesco Lamberti, per tutti Cecco, vice allenatore del Brescia di Renato Gei, mi diede un nomignolo: Ottavio Bottecchia dipendente. Bottecchia fu il primo ciclista italiano a vincere il Tour de France, nel 1924, e Lamberti diceva che io avevo lo sguardo sfuggente e solitario del grande campione. In fondo aveva ragione: facevo uno sport di squadra, ma non ho mai avuto rapporti stretti con altri compagni».
È vero che sconfisse Maradona in una gara di palleggi.
«Certo, a San Siro, prima di una partita contro l’Inter. Diego era lì che palleggiava con un limone durante il riscaldamento e tutti intorno lo guardavano estasiati. Allora io mi avvicinai alla cesta di frutta e presi un altro limone. E iniziai anche io a palleggiare: Diego, tu quanti ne hai fatti?. Ne feci uno più di lui. Per tutto l’anno non faceva che chiedermi la rivincita ma non l’ha mai avuta: sapevo bene che mi avrebbe massacrato».
Da allenatore c’è una squadra a cui è più affezionato?
«Io credo di aver bucato solo quando sono stato all’Inter. Ma poi, per il resto, ad Avellino, Como, Napoli, Roma credo di aver dato sempre il massimo e lasciato uno stupendo ricordo».
Le sarebbe piaciuto fare il ct?
«No, e comunque non me lo hanno mai proposto. Anche perché non piacevo a nessuno nel giro della Nazionale italiana, e per fare quel ruolo dovevi essere in grado di saper strizzare l’occhio a una fetta di opinione pubblica. E io ero allergico a queste cose. E poi quello è un altro mestiere: il selezionatore è diverso dall’allenatore».
La squadra più bella che ha visto giocare?
«La mia generazione rimase a occhi aperti a vedere il primo Ajax di Cruijff dare spettacolo con quei giocatori universali, capaci di fare tutti i ruoli. E pure io ne rimasi stregato, perché avevano qualità e forza fisica».
Le piace il Napoli di Garcia?
«Come fa a piacere o non piacere una squadra dopo un mese? Bisogna avere del tempo per poter dare un giudizio, non bastano così poche partite. Ed è questo un insegnamento dei miei vecchi maestri. Io sono sempre stato una specie di carta assorbente: apprendevo ogni cosa, ogni giorno, in ogni situazione. Pure le cose che non dovevo fare».
Così come il suo Napoli, neppure questo è riuscito a battere il Real Madrid?
«Ma quel primo tempo al San Paolo credo che sia negli annali del calcio spettacolo. Forse i più bei 45 minuti giocati dal Napoli in quegli anni. Loro erano formidabili, era una corazzata, ci mise al tappeto un gol di Butragueno. Ma la qualificazione la perdemmo a Madrid, anche perché fummo davvero sfortunati nella partita al Bernabeu che si giocava a porte chiuse. Ma non ho mai avuto rimpianti».
Fonte: Il Mattino