Queste ricorrenze andrebbero festeggiate: ma il calcio, che nel risultato ha un «satrapo», vieta di farlo prima. «E io la voglio vincere». Cento giorni fa, Rudi Garcia si accomodava sulla panchina del Napoli, ereditando il trono lasciatogli da Luciano Spalletti: sarebbe stato lui a portare lo scudetto in giro per l’Italia, la sintesi d’una Bellezza Estrema. «E io sono felice di essere qua e guidare questa squadra». E a Bologna, la sua centesima in A, gli toccherà rimettere a posto i propri pensieri spettinati, per dare un senso a ciò che adesso non sempre ha avuto. «Ma noi abbiamo buttato via soltanto la partita con la Lazio, dopo uno splendido primo tempo e con una ripresa insolita per le nostre abitudini».
DI CORSA. Non c’è il tempo di fermarsi, neanche di riflettere su cosa sia successo a Braga, una vittoria che ha lasciato il retrogusto amaro che neanche una sonora batosta: ma un signore di 60 anni (circa), che è dunque uomo di mondo, sa bene come vadano le cose nel suo macro universo. «A volte, è semplicemente una questione di millimetri. Abbiamo subito otto tiri e preso complessivamente sei gol. A Braga, per dirne una, abbiamo creato non so quanto e colpito pali e traverse, nel primo tempo. Potevamo chiuderla prima, raddoppiare, invece abbiamo sofferto». C’è quella sottile striscia che separa la gioia dell’amarezza, è una specie di terra di mezzo nella quale non germoglia mai un quadrifoglio: e Rudi Garcia, che nella sua vita ne ha viste, eccome sa bene che per scacciare via quelle sensazioni tossiche che s’avvertono intorno a sé, nell’ambiente, avrà una sola scelta. «Sfidiamo una bella squadra, guidata da un allenatore del quale ho stima e ne avevo tanta anche quando giocava. Sappiamo che sarà difficile, ma siamo consapevoli della nostra forza: io dirigo una squadra molto forte, che vuole vincere».
CHI SEGNA? Gli dei a volte si distraggono o fanno come gli pare: a Braga, hanno orientato una sfida piena di montanti; e per Bologna, hanno «demolito» una difesa che è rimasta in piedi con l’attak, può contare adesso solo Ostigard e Natan, e deve dunque fidarsi dei soliti noti, su cui Garcia si lancia a braccia aperte. «Ho parlato con Kvara e gli ho detto che deve sentirsi libero di non segnare. Se si mette a pensare al digiuno, non trova più il gol. E quanto ad Osimhen, posso semplicemente augurarmi che abbia lo stesso numero di occasioni del Portogallo. Noi siamo una squadra offensiva». Che deve comunque guardarsi le spalle, perché il venticello gelido della classifica – persino dopo una manciata di partite – può congelare. «Il quinto posto non ci piace, noi dobbiamo essere tra le prime quattro, perché un club come il Napoli deve partecipare sempre alla Champions. Poi è chiaro che i nostro obiettivi si allargano, perché vogliamo difendere il titolo con gli artigli. Ma io sono soddisfatto del lavoro svolto, il successo di Braga aiuta, dà coraggio, lo abbiamo meritato. E per recuperare in campionato quello che abbiamo lasciato contro la Lazio, bisogna prendersi i tre punti a Bologna».
PERICOLO! Con una squadra che può cambiare tanto o anche no («le cinque sostituzioni mi permettono di intervenire»), che ha bisogno di ritrovare se stessa («l’organico mi consente di tenere una qualità alta»), che dovrà limitare gli errori che Garcia ha memorizzato, uno per uno: «Bisogna migliorare la gestione della partita, rispettare i nostri principi, possesso e pressing, e però abbassarsi per sfruttare gli spazi e segnare in ripartenza». Per prendere in contropiede chiunque, tranne se stesso: nel calcio pratico di Garcia, è facile intuire che c’è sempre un pericolo o un fantasma da domare per chi sta in panchina. Un centenario conosce le insidie del mestiere. Fonte: CdS