È inutile star lì a chiedersi quanto duri l’effetto-scudetto e se c’è il rischio che possa essere già svanito: basta voltarsi, guardare le facce del Capolavoro, ammirarle nelle sfumature o nella controluce, poi riflettere e pensare che, in fin dei conti, non è cambiato niente. Sono sempre loro, sono ancora loro: sono quei ragazzi dalla faccia pulita, i figli ideali, che hanno riscritto la Storia. Addosso, portano il peso della propria eredità, l’hanno costruita con le proprie mani e con i propri piedi, e non hanno certo voglia di starsene sospesi su un ponte tibetano a sentire il venticello gelido della diffidenza. Se ne sono andate via tre partite, ma ciò che resta è il «Progetto», che saprebbe di retorica se non venisse raccontato rileggendo ciò ch’è stato, in quest’era che sa di Napoli, di idea nuova e alternativa, anche di fedeltà e comunque certo di condivisione (almeno finché si può) con gente che appartiene al «club dei centenari».
LA BANDIERA. Piotr Zielinski, incurante dei petrodollari, ha voluto starsene ancora a Varcaturo, sente il profumo del mare, si gusta gli echi di Napoli, della città, del centro, e quando vuole ci va a passeggiare: gli basta questa ricchezza, nient’altro, e pazienza se il suo contratto in scadenza 2024 non è stato rinnovato, se ne riparlerà, ma intanto le sue 332 presenze ne fanno un’icona o, se non si scadesse nell’ovvio, persino una bandiera. Zielinski è al suo ottavo anno di Napoli, ha attraversato la trasformazione, è rimasto «centrale» alla Filosofia con chiunque – da Spalletti ad Ancelotti, da Gattuso a Spalletti – una sola volta 42 presenze, poi sempre da 47 in su, e ha soffocato i luoghi comuni sulla continuità. Poteva fare lo sceicco, come tanti, ha preferito restare se stesso: si vedrà, eventualmente, tra dieci mesi cosa fare della propria carriera, perché intanto lui vuole godersi quella dimensione favolistica abbracciata simbolicamente sul prato di Torino, in una delle foto più iconiche che si ricordi del Trionfo. Dopo il gol di Jack. Steso sull’erba. Stremato, felice.
OTTO VOLANTE. È vero: adesso, con quello che c’è da giocare, cento partite le metti assieme dopo due stagioni o poco più; però Mario Rui – Mario Rui – per settimane e verrebbe da dire per stagioni, sfiorato dall’ironia tagliente o dal dissenso plateale di uno stadio che poi l’ha apprezzato, sta a 200. «Il professore», per Spalletti, è lui che ha appena avuto la soddisfazione del rinnovo, che ora entra nel vivo della competizione con Olivera. Ci sono otto uomini che sono oltre la soglia delle cento partite con il Napoli, ormai uno spartiacque generazionale: c’è stata una squadra con loro e una senza. Di Lorenzo, che è il capitano, viaggia spedito verso le duecento, s’è imposto con il rendimento e un profilo apparentemente basso, ma sempre autorevole, e alle sue spalle, un altro che ha dovuto lottare con i pregiudizi, c’è Meret, cinque anni da enfant prodige, perché si è sempre bambini nel tempo. Come Elmas (170), più o meno, segnalato da Davide Ancelotti, divenuto un jolly irrinunciabile, «il dodicesimo», che sta adesso aspettando Garcia.
LA RIVOLUZIONE. L’ultima, autentica scossa, è arrivata nel gennaio del 2020, quando Giuntoli intervenne in maniera robusta e cambiò la squadra: Lobotka (117), per un biennio, è finito nel freezer, poi Spalletti l’ha scongelato, gli ha affidato la seggiola da regista in mezzo al campo e l’occhio di bue ha cominciato ad illuminare il Napoli; nella sacca della Befana rivoluzionaria, ci finì pure Matteo Politano (147), distratto in queste ore dall’elongazione al soleo della gamba destra e a rischio per il Genoa, però comunque un riferimento del tridente, fondato su Osimhen, 104 partite nonostante un infortunio ad una spalla, il Covid, una commozione cerebrale, una tremenda frattura al volto e spiccioli di altre disavventure. Si può essere anche più forti del destino, a volte. Fonte: CdS