L’INTERVISTA – Fabio Cannavaro, 50 e non sentirli: “A sette anni il mio primo pallone”

Fabio Cannavaro, ex calciatore del Napoli e della Nazionale Italiana, fra qualche giorno compirà i suoi primi 50 anni, e ne ha parlato, fra le altre cose, in un’intervista a Il Mattino. «Ho visto tanti amici arrivare a questo appuntamento con ansia, per me non è così. Sono sereno, appagato dalla mia vita e dalla mia famiglia, da Daniela, al mio fianco da sempre, e dai tre figli. Mi porto dietro solo un po’ di stanchezza per il percorso che ho fatto e qualche dolore al ginocchio. Poca roba»Fabio Cannavaro è appena sceso dalla bici e anche mercoledì vi salirà per un giro, prima della festa nel cuore di Napoli. «Quanti chilometri faccio? Tre o quattrocento a settimana».

Ricorda a quale età le regalarono il primo pallone?
«A 7 anni. Papà Pasquale era calciatore e quindi il pallone, con quel mondo, è stato sempre in nostra. A 8 anni mi iscrissero alla scuola calcio Bagnolese, subito dopo a quella dell’Italsider, con mister Giglietti. E poi entrai nelle giovanili del Napoli, dove vinsi lo scudetto con gli Allievi. E trovai qui l’allenatore che mi cambiò la vita».
Chi era?
«Riccardo De Lella, un maestro. Io giocavo da centrocampista ma un giorno lui mi disse che aveva bisogno di un terzino. Te la senti?. E certo che me la sento… Da terzino a centrale il passo fu breve. E c’è un altro allenatore di quei tempi a cui sono rimasto grato: Aldo Talamo. A un certo punto il Napoli mi aveva mandato via, sapete?».
Perché?
«Era stata creata una società satellite, la Gis. L’allenatore, appunto, era Talamo. Lui mi spinse a non mollare e dopo poco il Napoli mi richiamò. Nella Gis c’era anche Gaetano De Rosa e noi siamo stati i calciatori che hanno giocato di più in serie A. Questa è la parte diciamo così ufficiale della prima fase della mia carriera».
E l’altra?
«È la strada, le infinite partite dalla mattina alla sera nella Loggetta, dove vivevo io, e nel piazzale dello stadio San Paolo. La migliore scuola di calcio e di vita possibile. Là, su quei campi immaginari, ho costruito amicizie che sono rimaste nel tempo e ho capito cosa è l’aggregazione. Quella che adesso manca».
Quale epoca vivono i ragazzi?
«Manca appunto lo spirito di aggregazione. Si fanno meno figli e questo si nota in quelli che dovrebbero essere i luoghi da condividere. Ricordo la Loggetta degli anni 70, quando ogni famiglia aveva tre o quattro figli. E tutti i maschi giocavano a calcio: eravamo in centinaia, avremmo potuto fare un campionato…».
I giovani a Napoli oggi devono schivare la morte.
«Il dramma di Giogiò è una ferita profonda. C’è un’idea che si può sviluppare per i giovani ed è creare spazi a loro dedicati e difenderli, perché c’è il rischio dell’incuria e dell’abbandono. Ci vogliono strutture sportive. Io attraverso la città in bici e quando passo sul lungomare di via Caracciolo immagino come potrebbe essere trasformato e diventare magari come quello di Copacabana, dove esistono aree per tutti gli sport».
Lei ha timori per i suoi figli?
«No. Io e mio fratello Paolo vivevamo altrove ma abbiamo deciso di tornare a Napoli. Qualche raccomandazione in più ai ragazzi, ormai grandi: ecco tutto».
Presto inizieranno i lavori al Centro Paradiso, il suo vecchio campo che ha acquistato a fine luglio.
«Ho lavorato su questa idea per 15 anni e sono finalmente riuscito a realizzarla. Ho voluto riaprire uno dei miei campi. Gli altri, come quello dell’Italsider, non ci sono più. Mi sono emozionato quando ho rivisto il mio spogliatoio, quello dei giovani che si allenavano con la prima squadra. E vorrei che provassero queste sensazioni anche i ragazzi che faremo allenare là dove ci sono la storia del Napoli e la mia storia».
Berlino, 9 luglio 2006: la notte mondiale in cui alzò al cielo la Coppa, anzi la «bambina».
«Andai a dormire con la Coppa, come facevo col pallone quando ero bambino. Non finiva mai, quella finale coi francesi. Scherzando ma non troppo dissi che avrei tirato eventualmente il rigore soltanto dopo Buffon. E questo perché da ragazzino, giocavo con l’Italsider, sbagliai un tiro dagli 11 metri: mi disperai e promisi a me stesso di non calciarne più. A Berlino fu la notte perfetta. Ero al massimo della condizione fisica, tecnica, psicologica. Se rivedo i filmati mi dico: ma come facevo certe cose?».
E la Nazionale, da anni, come fa a non farne altre? Ad esempio qualificarsi per il Mondiale?
«Sembra che sia calato il buio dopo Berlino. Siamo usciti due volte dal Mondiale al primo turno e poi non ci siamo qualificati nelle successive due occasioni. C’è stata la vittoria all’Europeo, certo. Va fatto un lavoro in profondità su due fronti. Il primo è quello tecnico. Deve essere recuperata la forza della scuola calcistica italiana, come quel primo step in cui ti insegnano a correre e saltare. C’è qualcosa che devi avere dentro e con cui cresci. Si fa spesso l’esempio della Spagna e della fiducia ai giovani, ultimo della serie il sedicenne Yamal. Il secondo aspetto è quello legato ai club e alla loro possibilità di rafforzarsi economicamente attraverso gli stadi di proprietà. Ecco, è qualcosa non più rinviabile, anche perché altrimenti il nostro calcio diventerà il supermercato della Premier e dell’Arabia Saudita».
Spalletti è già a un bivio decisivo contro l’Ucraina.
«Ha bisogno di tempo per trasmettere le sue idee. I giocatori della Nazionale li vedi per pochi giorni, li alleni e li mandi in campo. Aspettiamo questa partita e poi confidiamo in un progresso, anche se sui nostri problemi ha inciso lateralmente la crescita di altri Paesi e altre nazionali: non ce ne siamo resi conto».
Lei è stato l’allievo prediletto dell’ultimo ct mondiale, Lippi.
«Mi lanciò ventenne nel Napoli, poi l’ho ritrovato in Nazionale e insieme abbiamo vissuto l’avventura in Germania. Devo molto anche a Capello, che mi volle alla Juve dopo una stagione per me difficile».
La Nazionale è solo un aspetto dello stato di sofferenza del calcio italiano.
«L’Inter è arrivata alla finale di Champions League, un segnale importante. Ma poi? La squadra di Inzaghi, il Milan, la Juve e il Napoli si giocheranno lo scudetto. C’è stato un livellamento ma ritengo verso il basso. E comunque non ci sarà un campionato come quello in cui il Napoli ha creato il vuoto».
C’è un clima strano intorno agli azzurri dopo la sconfitta con la Lazio.
«Il tifoso napoletano si lascia prendere dallo scoramento, si sa. È chiaro che il percorso per Garcia non è facile perché ha preso il comando di una squadra che ha stravinto lo scudetto. La gente si era abituata bene. Credo che i giocatori debbano capire che può essere un episodio vincere lo scudetto mentre rivincere significa aprire un percorso e dimostrare che sei davvero forte. Sul Napoli rischia di incidere la partenza di Kim, uno dei punti di forza nella scorsa stagione. Ma c’è tempo, i giudizi non sono possibili dopo tre partite».
A 50 anni ha rimpianti?
«Nessuno. Ho fatto e faccio la vita che volevo. Ho scelto la carriera di allenatore e ho voluto vivere quell’esperienza a Benevento per confrontarmi per la prima volta con il calcio italiano. No, non per fare gavetta: quella è cominciata in Cina, prima di vincere lo scudetto».
Ha mai pensato a cosa avrebbe potuto fare se non fosse stato Cannavaro?
«Ho cominciato a giocare a 8 anni… Non saprei. Forse l’arredatore di interni, l’architetto, il pizzaiolo. E magari avrei fatto sport come ciclismo e snowboard».
Cannavaro
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