Questione di fantasia e libertà. Pane di Gianfranco Zola. Componenti che pare stiano un po’ scomparendo dal calcio di oggi. Il fantasista ex Napoli, intervistato da Walter Veltroni per il Corriere della Sera.
«A me nessuno si è mai sognato di dirmi, quando avevamo la palla noi, “Vai di qua o vai di là, fai così o fai colì”. Io diventavo matto, quando cercavano di imbrigliarmi. Qualche allenatore ci ha provato, ma non era per me. Io al calcio sapevo giocare solamente in quel modo. Non ero uno sregolato, facevo disciplinatamente il pressing quando gli avversari impostavano il gioco. Ma, quando avevo la palla, volevo essere libero di fare quello che sapevo fare: inventare. Al mio amico Luca Vialli, dicevo: “Tu dimmi come vuoi la palla, poi a come fartela avere ci penso io, non preoccuparti”. Tenevo alla mia indipendenza, al modo in cui cercavo la posizione, al tempo delle mie giocate. Mi dava certezza, sicurezza. Perché era quello che sapevo fare».
Un po’ di poesia in meno?
«Sì, perché tutto è cambiato, tutto è molto più costruito, molto più ripetitivo. Quello che si vede oggi non è che non sia piacevole, per chi ama il calcio, ma è sempre lo stesso schema, è uno spartito sempre uguale. Quando giocavo io era tutto più libero e questo aiutava lo spettacolo e la creatività del gioco. Si inventava, oggi si ripete. Sia chiaro, c’era anche tanta mediocrità, ma in ogni partita c’era, a un certo punto, una luce che si accendeva e succedeva qualcosa che non avevi mai visto prima».