La foto del suo profilo Whatsapp è quella con Altafini e Sivori, il Napoli degli anni Sessanta che fece per la prima volta sognare lo scudetto. «Furono loro a giocare con me e non viceversa, precisiamo: io ero a Napoli già da due anni». Con un sorriso mette le cose in chiaro, come sempre ha fatto questo brasiliano che è sbarcato qui sessantun anni fa e non si è più allontanato. «Sono nato a Rio de Janeiro e vivo a Napoli. Ma la mia fortuna è stata un’altra», racconta Jarbas Faustino Cané, sposato da oltre mezzo secolo con Adele.
Quale fortuna?
«Appunto aver incontrato questa magnifica donna e aver creato una splendida famiglia. Tra un mese divento bisnonno: cosa potrei volere di più?».
Cané e Napoli.
«Arrivai qui a 21 anni, dopo aver giocato per due stagioni nel campionato professionistico brasiliano. Il mio sogno era l’Europa e Napoli mi ha cambiato la vita: qui sono diventato uomo prima ancora che calciatore e allenatore».
Legò subito con i tifosi.
«Puoi vincere o perdere in campo, quello che conta è creare un rapporto. E quello con la gente, anche a distanza di tanto tempo, è molto bello e forte».
Ricorda quello striscione sui tre fuoriclasse della Seleçao mondiale? “Didì Vavà e Pelé site a uallera e Cané”.
«Un gesto di affetto. E di stima, diciamo così…».
Lei fu avversario di Pelé al San Paolo.
«Venne a giocare un’amichevole col Santos e scattammo insieme una foto. Era il re del calcio, un leader innato. Ricordo che eravamo già sotto di quattro gol e lui sollecitava con modi forti il portiere Gilmar a rinviare subito il pallone perché voleva segnare ancora».
E con Altafini e Sivori come andò?
«Legammo subito. José era un mio conterraneo, formidabile battutista fuori dal campo. Omar era il Maradona di quell’epoca. Un Napoli di grande qualità, con bravi calciatori napoletani come Juliano e Montefusco. Antonio non aveva la classe di Vincenzo ma aveva un carattere di ferro».
Lei ha cominciato la carriera da allenatore nel 76 a Napoli.
«Nel settore giovanile, poi decisi di iscrivermi al supercorso di Coverciano perché mi sentivo pronto per l’esperienza con una prima squadra e trovai l’appoggio di Paolo Fino, il dirigente del vivaio del Napoli».
Prima panchina quella della Frattese. E poi altre cinque squadre campane: Afragolese, Sorrento, Campania Puteolana, Juve Stabia e Ischia.
«Cinque promozioni in un calcio difficile. Ma non ho avuto mai timore di nulla».
E un rimpianto?
«Non aver allenato in serie A. Mi ero illuso che potessero bastare i risultati e il lavoro per avere un’opportunità e invece… Tanti hanno avuto questa chance e avrei potuto meritarla anche io. Al Napoli ho dato davvero tanto».
Il sogno era la panchina azzurra.
«Ne parlai con il mio ex compagno Juliano, allora direttore generale, quarant’anni fa. Ma lui scelse Santin, che aveva guidato la Cavese in serie B. Mi offrì il posto di vice allenatore. Non faceva per me e così continuai per la mia strada. Di quello che ho fatto ne parlerò in un libro che esce in dicembre».
Il colore della pelle è stato un problema per lei?
«Quando arrivai a Napoli, c’erano bambini che per strada mi urlavano “nero nero nero” e io rispondevo “bianco bianco bianco”. Tutto qui. No, mai stato un problema e l’ho sempre detto con chiarezza. In Brasile non lo era e non lo è stato neanche qui: ho una moglie bianca… Questa è stata la mia esperienza. Il fenomeno continua ad avere una preoccupante dimensione: addolorano certe scene e certe storie. No, mai stato un problema per me il razzismo. Tutti i giorni mi sveglio e mi guardo nello specchio: non l’ho mai spostato e ho continuato a seguire il consiglio di mio padre».
Quale?
«Rispetta sempre tutti ma fatti sempre rispettare».
Fonte: Il Mattino