Rudi Garcia: «La panchina del Napoli è un regalo, non vedo l’ora di iniziare Servono lavoro, sudore, umiltà: non esistono gli insostituibili»

Se c’è un angolo di terra in cui val la pena immergersi, per respirare il tempo e anche la storia, è proprio dentro la Reggia di Capodimonte in cui conviene starsene: e sarà perché qui l’arte ti seduce, o magari semplicemente per lasciar sentire un po’ Rudi Garcia a casa sua, ma quando Napoli entra prepotentemente nel vissuto d’un uomo dialetticamente carismatico, s’intuisce liberamente che nell’aria c’è quasi un senso di familiarità sprigionata dai capolavori che impregnano le sale. Bonsoir, monsieur Garcia, in una galleria che profuma di genialità abbagliante, in quell’eco già avvolgente d’un centinaio d’uomini che sfidano il caldo per raccontar la vita, questa calcistica, nella scia d’una impresa che sta lì, galleggia nei saloni, e pare rappresentare ora un tormento, non più l’estasi: «Vorrei fare i complimenti per quanto appena ottenuto. Io ho appena ricevuto in regalo da De Laurentiis questa panchina, ho le sue stesse ambizioni e spero di fare in modo che i tifosi siano fieri della loro squadra, come nella stagione che si è conclusa da poco». Qui c’è la Storia, quella del football, si perde tra dipinti che rapiscono e (ovviamente) non sparisce, ma c’è traccia di sé, c’è l’orgoglio di aver colmato un vuoto gigantesco, trentatré anni, e la consapevolezza che non sarà facile ripetersi. «Ma io non ho paura di niente. Sogno di vincere. De Laurentiis ha alzato l’asticella con la Champions e però sappiamo che ci sono club che hanno impiegato quindici anni e speso tanti soldi per riuscirci. Ho un organico forte, una squadra che ha divertito e però si riparte da zero».  

 

IL MIO TOCCO. Le pennellate di quest’epoca leggendaria restano nel caveau della memoria, appartengono (già) al passato, rientrano nel patrimonio artistico d’una città che Garcia vorrà conquistare (pure) a modo suo, ripartendo da ciò ch’è stato, il calcio di Spalletti, ma aggiungendoci graffiti personali. «I giocatori devono dimenticare, bisogna essere umili e avere grandi ambizioni, sudare e lavorare. Sedersi su questa panchina significa sapere che ti attende un compito difficile. Io non devo rivoluzionare, non cambierò molto ma ovviamente cambierò qualcosa. Nella mia carriera ho utilizzato il 4-3-3 ma ho sfruttato pure altri moduli. Non esiste solo il piano A, non deve. Bisogna saper cambiare in corsa. Lotteremo, dovremo essere attenti dal punto di vista psicologico, mettendo la sveglia a tutti». E il sistema sarà un dettaglio dentro un processo motivazionale che non prescinderà però dal mercato, da ciò che accadrà, da quel che resterà, da movimenti che sono imprevedibili oggi, in una giornata in cui Garcia ritrova un’Italia eguale eppure diversa a quella lasciata sette anni e mezzo fa: «Io volevo solo essere sicuro che De Laurentiis volesse ancora vincere trofei. Non ho fatto richieste al presidente, che ha legittime aspirazioni e quindi mi darà un Napoli con qualità, cosi continueremo a divertire i tifosi. Le mie squadre attaccano, fanno gol, partiremo a bomba per arrivare fino in fondo. Tre italiane nelle finali delle tre competizioni europee testimoniano che il calcio italiano è tornato in alto nel mondo». C’è quest’estate ancora pallida che però può diventare rovente, perché si sa come rischiano di andare a finire certe cose, però c’è un clima chiaramente gioioso, sa di luna di miele, e non esistono turbamenti, né oscuri o cattivi pensieri scatenati dal mercato. «Il Napoli giocava bene, difendeva bene, c’è una rosa ampia. Conosco Anguissa per averlo fatto debuttare, straordinario giocatore che è cresciuto. Come Lobotka, come tutti. Non amo parlare dei singoli, ovviamente, ma cercheremo di costruire intorno a questo gruppo l’idea del calcio che mi piace, fare possesso, attaccare. E se avremo le stesse motivazioni di sempre, saremo tosti. Quanto alle proposte irrinunciabili, so che esistono: ma nessuno è insostituibile». Lo sono solo i quadri alle pareti, l’atmosfera affascinante d’una città attraversata nella sua anima più nobile che cinge Garcia come in quell’abbraccio virtuale di Sylvain Bellenge, il direttore del Museo di Capodimonte, che fonde le emozioni del calcio a quelle della cultura, sotto gli occhi del console francese: «Lo scudetto ha comunicato al mondo d’un Napoli vincitore». Visto da lassù, è un panorama mozzafiato.

 

Fonte: CdS

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