C’è un’espressione un po’ così, si direbbe inquieta, che s’allunga nella notte del trionfo: è il riflesso condizionato d’un tempo, di un anno, o di uno stato d’animo. E magari sa di libertà che, senza i lacciuoli dell’aritmetica, può essere vissuta limpidamente. Quando Luciano Spalletti si mette in pace con se stesso e dà una spazzolata ai suoi pensieri raccolti, Napoli è campione d’Italia e lui pure (ovviamente): e in quell’atmosfera così magica, quasi irripetibile, c’è la sintesi d’un biennio esaltante, tra l’estasi dei successi e pure qualche tormento. Ce n’è uno che sta lì, sembra quello dominante («io sono fatto così: se devo analizzare il nostro percorso, che è fantastico, non riesco a fare a meno di avvertire amarezza per l’eliminazione in Champions») e invece, nel retrovisore, dev’esserci altro da sistemare in quell’orizzonte ampio che gli appartiene.
RINNOVO. Napoli è l’ombelico del Mondo, senza enfasi, una cartolina festante che approda ovunque ci siano i propri figli, e proprio in quell’eco, nella quale s’accartocciano le frasi che De Laurentiis gli ha appena dedicato ed annunciano un matrimonio ad oltranza, Spalletti infila qualche messaggio subliminale da adagiare sul tavolo del dialogo: «Cosa rispondo al presidente che mi dice che si ripartirà da me? Lo deve dire a me non lo deve dire a voi. Deve parlare a me». Si può costruire qualsiasi teorema in quella precisazione diretta ma si può pure evitare di attorcigliarsi in libere interpretazioni, dando un senso al vissuto: la pec, quel diritto d’opzione di rinnovo esercitato burocraticamente, ha di fatto già reso esecutivo l’accordo sino al 2024 che, chiaramente, può essere adeguato, rimodellato o anche messo in discussione per mancanza di motivazioni dell’allenatore («mi dico sempre: sono nella condizione di dare al pubblico ciò che merita?»); oppure c’è semplicemente la necessità di chiarirsi ancora e di nuovo, di aggiungere certezze dove invece c’era precarietà.
MODELLO. Lo scudetto, il suo calcio, quel Napoli che in Europa è diventato un modello di riferimento con un appeal seducente, ha stordito il Tottenham, ha indotto comunque Spalletti a rinfrescare il proprio inglese; però quella panchina, la sua, porta in sé in profondità le tracce di una cultura che pare radicata e sufficientemente diffusa. Non sono stati anni semplici, non lo è mai per chi allena il Napoli, e prima di lanciarsi in una nuova avventura, per evitare di bruciare (malauguratamente) quel patrimonio di sentimenti vivi che sviluppa un trionfo, val la pena di prendere due appunti dalla memoria e farne argomenti di riflessione: «Questa è una società di quelle serie, che ha fatto un grande lavoro. Il presidente pensa alla Champions e vabbè, così poi tra un anno mi verrete a dire, come è successo adesso, che quando lui credeva nello scudetto io parevo scettico, mentre scettico non ero. E’ chiaro che se si spara sempre più in alto, per lui – che casca sempre in piedi – diventa più facile. Per me questo è un gran momento, mi ripaga dei sacrifici della carriera. E poi Napoli è felice». Però c’è il libro delle verità da riempire.
Fonte: CdS