Gli hanno reso omaggio con un docufilm: «La favola di un visionario». «Anche se a dire il vero sono stato anche un po’ un rivoluzionario nel calcio. Come, per certi versi, il presidente De Laurentiis che ha sempre messo le idee al centro di ogni cosa e che adesso vince lo scudetto con i bilanci sani, senza barare». Arrigo Sacchi, il vate, il maestro di Fusignano, trentatré anni fa, era il “nemico”: guidava il Milan che finì alle spalle del Napoli nel giorno del secondo – e fino a oggi – ultimo scudetto degli azzurri. «Uno scudetto che ancora mi fa male».
Sacchi, per il Napoli una stagione da sogno?
«Sì, ha fatto un “miracolone” perché all’inizio della stagione non c’era in giro nessuno che avrebbe scommesso su questo cammino straordinario degli azzurri. Non so se Spalletti, come me, avrebbe mai pensato di raggiungere certi livelli: c’è sempre una correlazione tra la grandezze del sogno e quella del risultato».
Bisogna dirlo: finalmente una vittoria del merito.
«Vero, è così. Il calcio è spesso la metafora delle abitudini di una nazione dove ha sempre il sopravvento la furbizia, che è simile alla disonestà e che non è certo un valore che va insegnato: da noi il calcio si è tramutato in difensivo e individuale. I romani sono stati gli ultimi a vincere e a fare squadra. Poi siamo stati invasi e ognuno ha pensato solo ai propri interessi di campanile. In Romagna Imola, Ravenna e Lugo si battevano di continuo. Il Napoli vince perché ha fatto la cosa che è divenuta più difficile ai nostri tempi: ha fatto squadra, ha creato un collettivo».
Cosa più l’ha colpita?
«Il Napoli sta compiendo un capolavoro perché nel suo gioco c’è tutta l’espressione della coerenza dei suoi giocatori: Spalletti, Osimhen, Lobotka e tutti hanno compreso che c’è sempre un solo antidoto che funziona contro ogni cosa e che il miglior propellente a tutto: fare sempre il proprio gioco, imporlo. Per diventare un collettivo come quello che ha creato Luciano occorrono tre cose: prima di tutto, forte motivazione. Seconda cosa elevato spirito di appartenenza. E terza cosa, il gioco. Il vero pericolo arriva adesso».
Ovvero?
«Per aprire un ciclo vincente, bisogna stare attenti. Attenti che non ci sia qualcuno in futuro che non sia più disposto ad avere motivazioni e spirito di gruppo. Se dovesse succedere va allontanato. Perché la forza del Napoli è proprio in questo».
È una bella notizia anche per il calcio italiano lo scudetto degli azzurri?
«Certo. De Laurentiis ha creduto alle idee e non alla forza dei soldi. Vince lo scudetto con un bilancio buonissimo, sapendo bene che molte delle sue rivali hanno conti economici, per così dire, complessi. Ha speso molto meno di Juventus e Inter, investendo sull’unica cosa che non costa nulla: il gioco. Magari sarà un presidente non simpatico a tutti ma in un Paese dove nessuno crede alle idee e dove si spende sempre e solo a casaccio, lui ha sempre percorso la strada giusta. E ora raccoglie i risultati di un progetto iniziato con Sarri».
Berlusconi e De Laurentiis si somigliano in qualcosa?
«Al Milan erano reduci da un quinto posto quando arrivai io. E il Cavaliere perse l’abitudine di dare i premi-partita, non li sopportava: “Se arriviamo dal terzo posto in su, ha un senso e pagherò un premio alla squadra”, mi disse. Vincemmo un derby con l’Inter e un calciatore, nel vederlo, gli urlò: “Premio, premio”. E lui, a muso duro gli rispose: “Guardi, sono ricco ma non sono stupido”. E se ne andò».
Certe somiglianze ci sono tra il primo Milan e questo Napoli?
«Arrivarono Gullit e Van Basten ma quest’ultimo giocò per intero solo tre partite il primo anno. Per il resto prendemmo calciatori come Colombo che era retrocesso dall’Udinese, Ancelotti che a Roma dicevano fosse ormai un “pacco”, dalla serie B Mussi, Bianchi e Bortolazzi, dalla C portai Costacurta. Come il Napoli: sono andate vie delle star e sono arrivati dei semisconosciuti. E ha vinto. Perché Luciano come me non si è mai sentito un tattico, ma uno stratega: il tattico non dà gioco alla squadra, forse non ci crede neanche. E quindi fa prendere giocatori su giocatori… ma i bilanci poi sono in rosso. Il suo, invece, no».
Però è uscito fuori dalla Champions.
«Perché basta uno di miracolo, mica ne possono arrivare due!».
Il gol di Giroud, ricorda uno dei tre segnati al San Paolo il primo maggio 1988.
«Vero, me lo ha ricordato Galliani che mi ha scritto un messaggio. Ma per carità: noi giocammo quella gara 80 minuti in attacco, questo Milan no. Il mio ragionamento era semplice: se abbiamo noi il pallone, non ce l’ha Maradona».
Però, il Napoli è stato eliminato. Un’ingiustizia?
«Perché non sono stati compatti. Un gruppo che si muove in 25 metri, avanti e indietro, fa la differenza. Se vai sui 50 metri, non sei più la squadra imbattibile che ha incantato in Italia e in Europa».
Un trionfo dopo una dura sforbiciata.
«Proprio questo mi piace: il fatto che lo scudetto arrivi dopo il taglio degli ingaggi. Come il Milan un anno fa. Era ora, è un segnale per tutti. Churchill diceva “Cambiare non equivale a migliorare ma per migliorare bisogna cambiare”. Ecco il coraggio che ha avuto De Laurentiis e che dovrebbero avere in tanti. Ma questo è un Paese antico che, diceva un mio amico spagnolo, “le gusta la antiguedad”».
Spalletti dice che nel futuro firmerà sempre e solo un anno di contratto alla volta.
«Pure io iniziai così: poi, anche perché mi curarono bene una gastrite che poteva divenire un’ulcera, accettai un triennale. Che firmai in bianco. E Galliani, quando mise le cifre, fissò uno stipendio più basso di quello che prendevo al Parma. Luciano è bravissimo, raccoglie il frutto di decenni di esperienze. Deve essere lui il più convinto di tutti ad andare avanti. Ma credo che lo farà».
Il tecnico ha fatto una vita molto riservata qui a Napoli.
«E ha fatto bene. Io neppure più al cinema andavo, mi sembrava di togliere del tempo al mio lavoro, di commettere un sacrilegio. Solo una volta, per curiosità, andai a vedere un film di Tinto Brass. Perché nel calcio o dai tutto te stesso o è come se non dessi nulla».
Perché è stato bravo Spalletti?
«Perché è riuscito a rendere questo gioco più spettacolare, ha provato a dare emozioni, gioie. Ha smesso di dare l’immagine di un calcio italiano retro. Sarri aveva già iniziato questo processo di rinnovamento».
Ci sono dei rischi in questo ciclo che inizia?
«Bisogna continuare a guardare non nei piedi dei calciatori, ma nella loro testa. È la regola. E questa cosa dovrà essere rifatta sempre, ogni anno, già la prossima estate. Perché il rispetto del bilancio è una grande correttezza. E adesso, il Napoli ha uno stile».
Cosa significa?
«Lo vedi giocare e capisci che il gioco, l’impostazione dicono: “Siamo il Napoli”. E questo produce un orgoglio nel vestire questa maglia. Il suo calcio è bellezza, è emozione, spettacolo, dominio, ottimismo, innovazione».
Un allenatore divenuto stratega, insomma?
«Sun Tzu ha scritto: “Quando un tattico incontra uno stratega sente già odore di sconfitta”. Ha ragione».
Dal 1992 a oggi, solo altre due volte non hanno vinto Milan, Inter e Juventus: c’è una ragione?
«Per avere successo le componenti sono importanti: il club con la sua storia e con la sua competenza viene prima di tutto. Cuccureddu, quando ero nelle giovanili della Fiorentina, mi disse: “Se la squadra viola giocava a Torino, avrebbe vinto chissà quanti scudetti”. La Juventus ha sempre imposto la sua potenza economica e organizzativa. L’avvocato Agnelli voleva conoscere la mia squadra prima di una gara al Comunale nel 1988. Berlusconi accettò ma io tremai all’idea che il suo carisma ci avrebbe indebolito: allora lo feci venire quando sapevo che la squadra era già in campo a fare riscaldamento. Lui entrò e trovò solo me e Berlusconi. Ci rimase male ma non lo fece vedere: “Sapevo che avevate una squadra fortissima, speravo che voi due l’avreste rovinata”. E dopo 17 anni tornammo a vincere a Torino»
Come andare avanti?
«Godersi questo scudetto. Fare festa a lungo, è giusto, meritato. Poi non perdere la testa, continuare nella ricerca, prendere ragazzi, che solo le persone competenti come De Laurentiis possono trovare in giro per l’Europa».
Fonte: Il Mattino