I n quell’istante, proprio mentre Khvicha Kvaratskhelia ha sterzato, la prima e poi la seconda e poi la terza volta, nel momento in cui Scalvini finiva (quasi) a faccia in giù e Toloi, sull’orlo della labirintite, deambulava pericolosamente, in quello stadio che sa di lui, in una città ch’è la sua, Diego Maradona è ricomparso, in certe movenze, nella spudorata sfacciataggine, nella leggerezza d’un gesto naturale, nella sublimazione del talento: e sarebbe irragionevole sistemare l’uno al fianco all’altro, cercare modelli di comparazione, ma se il calcio diventa magìa, le sensazioni dell’anima vanno interpretate come è capitato a Spalletti: «Ha fatto un gol degno di Maradona, questa volta si può dire. Perché questa qualità che ha nello stretto e l’imprevedibilità che ci mette, nella rapidità di esecuzione, quando ti guarda in faccia e ti viene a puntare è veramente devastante. Questa volta si può scomodare anche il più forte di tutti i tempi ». Da « h o visto Maradona» a «ho visto Kvaratskhelia» è un trentennio, anche di più, e non c’è tentazione di affiancare il Dio del calcio a quello che in otto mesi è diventato il suo potenziale erede, qualcosa che s’avvicina o che lo ricorda, il calco diverso di un genio che ha dentro di sé l’eleganza assai sciantosa d’un ballerino o di un modello che sfila; oppure più semplicemente di un uomo che va in giro con l’outfit d’un 77 e che però, pensandoci bene, fa cose che soltanto i numeri 10. Fonte: CdS