Vinicio: “Spalletti? Trasmette gli ideali ai giocatori. Io e lui abbiamo una cosa in comune”

L'ex calciatore e allenatore del Napoli ai microfoni de il Mattino
O lione:
«L’allenatore mica è uno qualsiasi: se dentro ha energia, porta quelli intorno ad avere un senso di responsabilità, a dare tutto se stesso, ma anche quello che non si ha, per ciò in cui si crede. Per questo Spalletti mi somiglia: nel 1974 feci una rivoluzione che la squadra faticò ad accettare all’inizio, ma quando lo fece creammo un Napoli che ancora tutti portano nel cuore. Come questo». Luis Vinicius De Menezes, Vinicio in arte e O lione per i tifosi, porta splendidamente a spasso i suoi anni in maniera dolce, furba, competente. Conosce il calcio, la tecnica e gli uomini. Inquadrò subito Juliano e i suoi compagni, li affrontò e li stregò. Come Lucianone ha fatto con gli azzurri. È il padre nobile del calcio napoletano, anche se resta brasiliano nell’animo. È felice per ogni cosa che racconta, non tornerebbe indietro neppure per rigiocare quel Juventus-Napoli («Se Altafini ha fatto gol all’88’ è perché era scritto così nel cielo»), ma un rimpianto ce l’ha. «Ecco, vorrei che il sindaco Manfredi pensasse a me per la cittadinanza onoraria: vivo qui dall’estate del 1955 e per il Napoli e Napoli ho rinunciato persino a giocare il Mondiale in Svezia, perché chi giocava in Europa non venivano convocato dal Brasile». Si racconta da Mimì alla Ferrovia ospite della famiglia Giugliano, con al fianco il figlio Mario console onorario del Brasile in Campania.
Vinicio, a distanza di quasi 50 anni c’è qualcosa che le sembra abbiano in comune questo Napoli con il Napoli del calcio totale? «Lo spirito. Ovvio che i miei Clerici, Bruscolotti, Esposito non possono essere paragonati ai calciatori che ci sono adesso. Ma la coesione che c’è tra gli azzurri di adesso non sfugge a chi, come me, ha vissuto il calcio fin da piccolo. Magari il concetto di amicizia è cambiato, ma si vede che Spalletti ha creato un senso di appartenenza che mi dà l’impressione sia più forte di Osimhen, Lobotka o Kvaratskhelia. Careca ha paragonato Osimhen a Pelé, ma non è così. Pelé era unico, come pure Garrincha. Io ebbi il coraggio di cambiare, ma fu decisivo anche il senso della disciplina. In Italia tutti marcavano a uomo, non mi andava. Così passai alla zona, prima mista poi totale. Nei ritiri venivano tutti a prendere appunti. Non mi meraviglia questo cammino straordinario, non vedo l’ora che arrivi la festa per lo scudetto».
E Spalletti ha qualche aspetto che ricorda Vinicio? «Se Simeone e Raspadori che non giocano mai, quando entrano danno la vita per il Napoli, vuol dire che ha trasmesso gli ideali giusti. Senza sentirsi squadra non si va da nessuna parte: quando arrivai al Napoli, a pranzo e a cena c’erano i tavolini a 4. Io li sostituii con una tavolata a ferro di cavallo, con me e Delfrati in mezzo. Parliamoci e guardiamoci negli occhi».
C’è anche la stessa personalità. «I calciatori altrimenti ne approfittano. Al Ciocco, avevo vietato bevande come la birra e l’acqua ghiacciata. Juliano pensò bene di infrangere la regola. Io non mi persi d’animo: «O fate come dico io o domani me ne vado. Vi do una notte». Il giorno dopo erano tutti al campo di allenamento. Così nascono le squadre vere».
Che tipo di presidente le sembra sia De Laurentiis? «Non è né Lauro né Ferlaino. Il comandante ci chiamava solo quando c’erano le elezioni a Palazzo San Giacomo, diceva due o tre cose per ottenere qualche voto e poi basta. L’ingegnere voleva vincere a ogni costo, stava dietro a ogni cosa, non mollava su nulla. E fu quello che più mi fece arrabbiare».
Vero, infatti minacciò di andarsene. «Nell’estate del 1975 persi le staffe: ero a Rio de Janeiro e mi chiamò al telefono per dirmi cosa pensassi di Savoldi. Certo, prendiamolo. Basta che non cediamo Clerici. Lui mi rassicurò che non lo avrebbe mai fatto. Il giorno dopo mi arrivò un giornale italiano che scriveva: Clerici al Bologna».
Il Napoli di adesso vince con pochissimi sudamericani, sembra un paradosso. «Vero, ai miei tempi impensabile che non ci fossero campioni argentini o brasiliani: ora ci sono solo Simeone e Juan Jesus…faccio fatica a ricordare tutti quelli che sono passati da qui, Maradona ovviamente, poi Sivori e Altafini, Careca e Higuain, Dirceu e… me».
Rispetto ai suoi tempi, la passione dei tifosi è rimasta la stessa? «Incredibile. I napoletani amano il Napoli come se fosse uno della propria famiglia. E capiscono subito i calciatori da amare, in base a quello che danno in campo. Tra me e i napoletani è stato amore a prima vista negli anni 50, nella prima di campionato segnai due gol al Torino, il primo dopo trenta secondi… ma possiamo dire che erano solo venti che suona meglio? (ride, ndr). Poi feci un gol al Vomero con una gamba spezzata. Sì, mi vollero subito bene. Ricambiai con 16 reti la prima stagione, 18 la seconda, 21 la terza. Amarono il mio Napoli quando diventai allenatore e ricordo persino i fischi dopo una sconfitta per 6-2 della Juventus al San Paolo: perché capirono che stavamo dando l’anima. E amano questa squadra, perché vedono il senso di appartenenza, la voglia di far vincere la città che trasmette Spalletti».
È un gioco collettivo che affascina anche lei? «Certo, perché so che fatica c’è alle spalle, che lavoro bisogna fare nella testa dei calciatori per ottenere quello che sta ottenendo Luciano: questo Napoli nasce dalle sconfitte con l’Empoli e la Roma di un anno fa. C’è un impegno quotidiano, la squadra corre, combatte, gioca. Questa squadra ha fatto un’altra rivoluzione, come il mio Napoli. Ma ho l’impressione che nel cielo, stavolta, è scritto che lo scudetto lo vincerà».

Fonte: Il Mattino

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