Lui c’era, eccome se c’era, il 10 maggio del 1987 e il 29 aprile del 1990: e fu un oceano d’emozioni, scaraventate su una città diversa, in quel calcio che prima sapeva di niente e dopo, invece, sanava la ferita dell’88. Lui c’era, certo che sì, travolto da se stesso, da quell’ossessione che lo divorava, dalla magia di un’epoca divenuta per un (bel) po’ irripetibile e che adesso sta per essere riprodotta. Corrado Ferlaino diventa presidente del Napoli il 18 gennaio, impiega 6686 giorni per vincere il suo primo scudetto, ne aspetta altri 1085 per regalarsene un altro, prima che quel vuoto gigantesco – tra retrocessioni in B, il Fallimento – non attiri Aurelio De Laurentiis e apra un ciclo nuovo il 6 settembre del 2004. Non si sa ancora cosa accadrà, quando accadrà, ma s’immagina che possa succedere, forse che debba capitare, perché ora tutto sa di Napoli, in questo calcio nel quale Ferlaino si accomoderà ancora, stavolta da eterno fidanzato, per vivere il futuro come se fosse rimasto dolcemente incagliato nei ricordi del suo passato.
Cos’è cambiato in Ferlaino, 36 – o 33 – anni dopo? «Assolutamente nulla. Il sentimento è identico, si chiama amore. Poi, all’epoca, alla fine del primo tempo me andavo via dallo stadio, mentre ora al 45′ spengo tutto e comincio a girare per casa. Se il Napoli sta vincendo, quando immagino sia finita, riaccendo la tv; e se però le cose stavano andando male, provo a vedere se funziona cambiare il televisore. Certi tormenti devo evitarli, lei mi capisce».
L’uomo che ha fatto della scaramanzia un mantra cosa prevede? «Quello che tutti pensano e nessuno dice, per ovvi motivi: ma io ora posso derogare, so che non ci sono avversari, né pericoli. Ragionando freddamente: il Napoli ha vinto il campionato. Si può scrivere, senza tema di smentita. E l’unica risposta che ora aspettiamo è la data in cui arriverà l’aritmetica conquista: secondo me, a sette o a cinque giornate dalla fine, sarà possibile cominciare i festeggiamenti».
Un Ferlaino come non si è mai visto. «È il potere di una squadra che diverte, che ti mette allegria, che gioca in maniera meravigliosa, come nessuna in Italia e forse persino in Europa. Un modo di esprimersi che non prevede il calcolo, c’è un processo tecnico e anche psicologico».
Dìa forma umana a questi pensieri e faccia un nome. «Questo è un riconoscimento per tutti, dalla società, al direttore sportivo, all’allenatore e ai calciatori, ma ritengo Spalletti il più straordinario protagonista di questa impresa. Per me, il più forte allenatore al Mondo, in questo momento. Ha reso possibile l’impossibile, perché non dimentico che ad agosto, in epoche di previsioni, nessuno si sarebbe spinto a tanto. Ma è vero, la squadra è forte, molto forte».
Spalletti ha qualcosa di Bianchi o di Bigon? «Gli allenatori non si somigliano mai. Ognuno è semplicemente simile a se stesso. Spalletti aveva dimostrato nella sua carriera di avere qualità enormi, le sue squadre hanno sempre trasmesso allegria. Stavolta si è spinto oltre, riempiendo il Napoli non solo di bellezza ma anche di praticità che in certe fasi della stagione è servita».
Una squadra che però rappresenta un tempo, va detto. «De Laurentiis è stato bravissimo e anche fortunato, un merito non irrilevante perché bisogna sapersi guadagnare l’attenzione della sorte e poi è indispensabile essere bravo nel gestirla. Ma aver Giuntoli, un fuoriclasse, gli ha semplificato la vita. Il mercato dell’estate scorsa ha pochi, mi verrebbe dire nessun precedente».
Lei avrebbe rifondato? «Non conta ciò che avrei pensato io o chiunque altro in quel momento. È centrale ciò che ha saputo fare il Napoli, mettendo sul mercato Koulibaly e lasciando che alcuni simboli, calciatori entrati nel cuore della gente, andassero via senza farne drammi. Avevano fiducia nelle scelte alternative, che pochi conoscevano. Penso a Kim, più di ogni altro, perché la curiosità poi è che il Napoli dei titolari, chiamiamoli così, si compone di nove-undicesimi di giocatori delle passate stagioni. C’era un seme, quindi».
Si sbilanci: chi le piace di più? «Non mi sono mai innamorato di un atleta, tranne che di Maradona e anche di Careca. Ma Diego è stato il calcio, il più Grande, e Careca mi diede soddisfazione: ero in Brasile in vacanza, ovviamente guardavo partite, se ne giocava una sotto una pioggia torrenziale mi accorsi di questo attaccante elegante, incontrollabile. Mi informai, cominciai subito a trattarlo, arrivarono altri club, ma giocai d’anticipo e feci un affare: non lo pagai neanche tanto».
È come se si fosse dichiarato, dunque, pur senza fare nomi. «Osimhen è entusiasmante. Sa fare tutto, non solo i gol. Diventa decisivo, fa la differenza, ha una velocità che è di pochi. E alle sue spalle poi c’è Simeone, un argentino, e basterebbe questo per rendercelo simpatico. Poi aggiungeteci che segna gol pazzeschi. Però, a scanso di equivoci, io continuo a premiare il gioco».
C’è una sola squadra al comando, con un vantaggio abissale, e questa è una rarità. «Milan e Inter sono crollate per aver sbagliato il mercato e determinate scelte; la Juventus è fuori per la vicenda di cui si è venuti a conoscenza; temevo la Roma, lo confesso, però ha perso a Napoli ed è fuori: in caso contrario, l’avrei considerata ancora un avversario».
La Juve è la fotografia d’un calcio malato. «E anche di una condizione societaria che non ha eguali nell’universo: essere una società gestita sempre e soltanto da una famiglia, quella degli Agnelli, alla lunga genera sofferenza. Il mondo è cambiato, con la Bosman è andata peggio, le società hanno perso il vincolo, non hanno possibilità di realizzare perché dopo un periodo i giocatori si liberano. So che è un discorso scivoloso, meriterebbe analisi più profonde, ma sintetizzo. Il capitale evapora nel breve termine, tre o cinque anni. E certi errori diventano determinanti. Poi lottare a livello internazionale con club così ricchi, inglesi e tedeschi, diventa un massacro».
Napoli ha anche la Champions. «Sì, bella, ma vada in giro a chiedere alla gente: cosa preferite e veda un po’ che risultati otterrebbe con un sondaggio del genere. I tifosi vogliono lo scudetto, sono trentatré anni che lo aspettano».
Cosa le costò, in termini economici? «Non ricordo ed è meglio così. Fu una specie di disastro per le casse societarie. All’epoca, ricorderà, esistevano i premi-partita: un punto vale un tot, la vittoria e i due punti incidevano diversamente, com’era ovvio che fosse. Vennero da me i rappresentati dei giocatori: presidente, dobbiamo alzare il bonus. E io, che non pensavo avremmo vinto il campionato, pensai di giocare d’azzardo: facciamo così, lasciamo tutto invariato e definiamo una cifra in caso di successo. Fu un bagno di sangue, mi creda».
Cosa consiglierebbe a De Laurentiis, allora? «Intanto, bisognerebbe vivere la società per potere eventualmente esprimere un parere, fosse pure il più irrilevante. Ma lei pensa che De Laurentiis abbia bisogno dei miei suggerimenti? Macché..!».
Perdoni la banalità, più difficile vincere negli anni 80 o, eventualmente dovesse accadere, farlo adesso?
«Non c’è distinzione: è complicato sempre, immagino ora come allora. Napoli parte economicamente in svantaggio rispetto alle altre potenze, è indiscutibile. Però ha la forza delle idee che lo rendono unico. Io mi inventai una grande squadra con dentro il calciatore che ha segnato non un’epoca ma l’eternità. E De Laurentiis ha avuto il coraggio di avviare un ciclo e di completarlo ormai alla stessa maniera: perché questo Napoli è proprio forte, riflette un Progetto lungo, un indirizzo coraggioso».
A tratti, anche recentemente, messo sotto accusa. «Perché c’è fretta, perché c’è voglia di successo, e ciò accadeva pure ai miei tempi. Ma nel calcio le cose non vanno sempre come vorresti, né come ti immagini possano evolversi. Un rimbalzo ti sposta un risultato. Ma alla lunga, l’impegno viene premiato. E se poi riesci a mettere assieme un direttore sportivo del genere con un allenatore di questa portata, allora riesci anche a risolvere l’equazione. Aggiungeteci è le difficoltà delle milanesi, che non sottraggono alcun merito, e il quadro è quello raccontato dalla classifica che mette a disagio tutti, perché questo campionato segna le differenze tra concetti filosofici. Il Napoli è stato un esempio per chiunque».
Ha già scelto cosa fare il giorno in cui, se il destino non ingannerà il sogno, il Napoli dovrà semplicemente godersi anche matematicamente il suo trionfo? «Guarderò mezza partita, immagino. E poi lascerò che sia la città a dirmi ch’è successo. Non sposto le mie abitudini e i miei riti, devo tutelare il mio cuore».
Fonte: CdS