La voce tradisce un filo di commozione, perché Pelé è stato un mito anche per il più forte dei nostri attaccanti, che dopo quasi mezzo secolo detiene ancora il record di gol (35) con la maglia della Nazionale. Gigi Riva, nella sua area preferita di Cagliari, abbassa l’audio del televisore e tra una sigaretta e l’altra ci regala i personalissimi ricordi del campione brasiliano che ha sempre ammirato, in campo e fuori. «Non ho alcun dubbio: Pelé è stato il più grande di tutti, come Maradona perché io li metto sullo stesso piano. Li ho visti da vicino, anche se in epoche diverse, e devo ammettere che io e tutti gli altri siamo dietro di loro, staccati rispetto a quei due».
Qual era la qualità migliore di Pelé?«Il controllo di palla, il colpo di testa, l’inventiva, insomma tutto. Sì, perché lui aveva proprio tutto, impossibile trovargli un difetto».
Che ricordo ha di Pelé, ripensando alla finale del 1970 persa in Messico?«Non bisognava scoprire Pelé in quella partita. E’ vero, ha segnato un bellissimo gol di testa che è passato alla storia. Noi, però, quel giorno non c’eravamo, perché ci sentivamo cotti mentalmente e fisicamente dopo la famosa semifinale vinta 4-3 ai tempi supplementari contro la Germania Ovest».
Ha potuto conoscere Pelé fuori dal campo?«Per fortuna sì e conservo due ricordi bellissimi, anche se molto lontani, di un paio di nostri incontri. In particolare mi impressionò la prima volta che venne a giocare a Cagliari. Dopo una partita amichevole ci trovammo nel ristorante del mio amico Giacomo e mi colpì la sua semplicità. Sorrideva e parlava con tutti, come una persona normale e ricordo che per questo stupì anche i miei compagni quella sera. Lui che aveva già vinto i Mondiali e avrebbe potuto far pesare il suo ruolo di fuoriclasse al di sopra di tutti, non se la tirava per niente. Davvero un bellissimo esempio per tanti altri giocatori meno bravi di lui. Mi colpì così tanto che me lo fece sembrare un sardo, uno vero insomma, incapace di fingere come i sardi».
Quanto le sarebbe piaciuto giocare con lui?«Purtroppo era impossibile, sarebbe stato troppo bello».
Lei rifiutò il trasferimento alla Juventus, avrebbe fatto altrettanto se l’avesse chiamata il Santos di Pelé in Brasile?«Ci avrei pensato, e conoscendomi sarebbe stato già tanto. Credo che l’amore per la Sardegna alla fine avrebbe prevalso, ma ammetto che almeno un pensierino lo avrei fatto».
Non avete più avuto occasione di incontrarvi, quando lei era team manager della Nazionale che perse ai rigori contro il Brasile nel 1994?«Purtroppo no e confesso che mi è sempre dispiaciuto non rivederlo più, perché sarebbe stato bello tornare a parlare con lui come due vecchi amici che si ritrovano dopo tanti anni. Ma forse proprio per questo mi rimane quel bellissimo ricordo del nostro primo incontro qui a Cagliari, alla fine del quale mi regalò la sua maglia gialla del Brasile con il numero 10 che mio figlio Nicola ha ritrovato proprio ieri in un armadio».
Se avesse rivisto Pelé, magari gli avrebbe detto che quel 4-1 contro di voi nella finale del 1970 in Messico era bugiardo…«Penso proprio di sì, perché fino a mezz’ora dalla fine eravamo sull’1-1 e sono convinto che se non fossimo arrivati cotti, dopo quella semifinale con i tedeschi, ce la saremmo potuta giocare con il Brasile. In fondo è quello il rimpianto più grosso della mia carriera e se potessi rigiocare una partita rigiocherei proprio quella. Anche se alla fine, con qualsiasi risultato, Pelé rimarrebbe comunque il più grande, davanti a tutti noi. E per questo sarà impossibile dimenticarlo».
Fonte: Gazzetta