Il capo di Cnn Sports interviene da Doha, bacia in diretta la maglia del Brighton, di cui è tifoso “sin dalla nascita” e dice che mai e poi mai in vita sua ha visto la sua squadra giocare così bene e, mai e poi mai, avrebbe pensato che i Seagulls avrebbero battuto il Chelsea 4-1 in Premier, pareggiato 3-3 ad Anfield con il Liverpool di Klopp, battuto l’Arsenal per 3-1 in Coppa di Lega, per giunta all’Emirates. Mancano venti minuti all’una di notte e stanno per scadere i cento minuti a tu per tu con Roberto De Zerbi, 43 anni, bresciano, dal 18 settembre scorso allenatore del Brighton & Hove Albion, club con il quale ha sottoscritto un contratto quadriennale.
La squadra è settima nella classifica della Premier League, con una partita in meno; si è qualificata agli ottavi di finale della Coppa di Lega dopo avere eliminato l’Arsenal nel terzo turno della competizione. L’Arsenal, capolista della Premier grazie ai 37 punti conquistati in 14 partite. L’occasione dell’incontro con De Zerbi, che rilascia la prima intervista italiana in esclusiva da quando siede sulla panchina del Brighton, è propiziata da Sportitalia, la tv dello sport, giovedì 17 novembre pronta a dedicare un’edizione straordinaria della trasmissione Sportitalia Mercato, in onda ogni sera alle 23 e condotta da Michele Criscitiello e Alfredo Pedullà. Insieme con me, al tavolo tecnico interviene Daniele Daino, 43 anni, ex giocatore di Milan, Napoli, Perugia, Bologna. Alle domande di tutti, De Zerbi ha avuto una risposta per tutti.
Il 24 febbraio scoppia la guerra in Ucraina e cominciano i bombardamenti. Il suo Shakthar Donetsk è in testa al campionato, dopo aver vinto la Supercoppa nazionale battendo la Dinamo Kiev. Ha avuto paura di morire sotto le bombe?
«No, ho riflettuto in seguito su questo pericolo: cadevano le bombe, ma ero sicuro di tornare a casa. Mi dispiaceva vedere in difficoltà i miei giocatori di altri Paesi con le loro famiglie e mi dispiaceva per i miei collaboratori. Abbiamo pensato prima ad aiutare i brasiliani e poi a come tornare a casa. Aspettavo che la federazione sospendesse il campionato: sino a un paio di giorni prima ci tranquillizzavano, dicendo si trattasse di una prova di forza dei russi per alimentare la tensione. Poi, invece, hanno cominciato a piovere le bombe. Andare via è stato un viaggio lungo e triste. Mi addolorano il dramma degli ucraini, le loro sofferenze immani. E dal punto di vista professionale, il rammarico è stato grande: avevo scelto io di andare in Ucraina, stava nascendo un grandissimo Shakhtar, sarebbe stata la mia squadra più bella. Ancora oggi, fatico ad accettare ciò che è successo».
Rientra in Italia e si parla di lei al Bologna, al posto di Mihajlovic. Perché non ci è andato «E’ stato scritto di tutto al riguardo. Io sono sempre stato zitto. Ognuno vede le cose a modo suo ed è brutto parlarne adesso perché sulla panchina rossoblù c’è un ottimo allenatore che stimo. Claudio Fenucci è una bravissima persona, sa come sono andate le cose: io a Bologna sarei andato a piedi, perché è una grande piazza e perché la prospettiva mi stimolava, ma in quel momento non ho ritenuto fosse giusto. Non è per fare del moralismo: ho fatto ciò che ho ritenuto più opportuno. Peraltro, Sinisa ed io non ci conosciamo, non è stato neanche per lui, è stata una questione mia. Non giudico chi ci è andato: semplicemente vede le cose in maniera diversa da me».
Visto dalla Premier, come giudica il Napoli marziano di questo scorcio di stagione? E qual è la sua opinione su Spalletti che, quand’era inattivo, si presentò da lei per seguire gli allenamenti del Sassuolo?
«Ho un buon rapporto con Luciano. Secondo me è l’allenatore più bravo della Serie A perché è sempre coerente e chiaro con la sua idea di calcio, pur cambiando squadra e interpreti. Tutti i tecnici si tengono aggiornati e fanno visita agli amici: mi fece piacere quando venne a Sassuolo».
Il Napoli può vincere la Champions League? «Sì. Per i giocatori che ha e per il modo in cui gioca, sì».
Fra gli allenatori dell’ultima generazione, poco conosciuti o appena messisi in mostra, secondo lei chi può arrivare lontano? «Penso a Zanetti, ma allena già in Serie A, De Rossi ha tutto per diventare un grande allenatore. Lo conosco e ho parlato molte volte con lui: ha ben chiaro ciò che vuol fare e, se è vero che tutto cambia quando si passa dalle parole alla pratica, è altrettanto vero che De Rossi abbia un grande carisma. Andrà lontano».
Allenerebbe l’Atalanta? «Sono bresciano, porto in campo dentro di me il ragazzo che andava in curva a tifare per il Brescia. Nella mia vita ho fatto di tutto: tifoso, raccattapalle, giocatore e allenatore. Io all’Atalanta? Non si può».
Guardiola nutre una grande stima nei suoi confronti e, al suo sbarco in Inghilterra, è stato fra i primi a congratularsi e a dare referenze eccellenti sul suo conto: è lui il modello di riferimento? Ed è vero che ha suggerito il suo nome al Barcellona? «Seguo Guardiola come lo seguono molti altri tecnici. C’è stato chi ha detto che noi allenatori siamo ladri di idee ed è vero: tutti prendono da tanti e fare questo apre la mente. Guardiola è un Numero Uno da molti anni e dai Numeri Uno si impara. Con me si è sempre comportato in maniera grandiosa, animato dalla voglia di spiegare le cose. Io consigliato da lui al Barcellona? Non mi risulta».
Visto dalla Premier League, che cosa sta succedendo a Cristiano Ronaldo? Ha rotto fragorosamente con il Manchester United e, in polemica con Rangnick e con ten Hag ha sbottato: “I nuovi allenatori pensano di aver scoperto l’ultima Coca Cola nel deserto…”. «Se se l’è presa con i nuovi allenatori, avrà avuto i suoi buoni motivi. Il suo sfogo? Di certo lo covava da tempo poiché le sue parole sono state pesanti. Forse si è sentito trattato male quando ha vissuto il dramma della perdita della figlia. La rabbia e il tono che ha usato sono comprensibili».
Com’è stato il suo impatto con la Premier? «Molto faticoso: per la lingua, anche se dicono stia facendo molti progressi; per il gruppo di lavoro totalmente nuovo; perché avevamo poco tempo per preparare la trasferta di Liverpool; perché il Brighton era quarto in classifica e Potter non era stato esonerato, ma se n’era andato per scelta sua. La Premier è un campionato diverso da tutti: la sua cultura sportiva, gli allenamenti più brevi e più intensi. La cosa più sorprendente è la differenza di pressione rispetto all’Italia. Il prepartita non esiste in un torneo così importante: da un momento all’altro passi dal ritrovo allo stadio, al pranzo comune nell’area hospitality, al fischio d’inizio. Nel campionato più prestigioso del mondo, io mi diverto anche quando perdo. Sono stato accolto benissimo e, forse, questo affetto non me lo merito tutto perché ho appena iniziato. Il contratto di quattro anni? I contratti valgono e non valgono, soprattutto con me: se non vai d’accordo, non c’è contratto che tenga. Io amo sottoscrivere un rapporto annuale, ma è stato il Brighton a volerlo così lungo e io ho rispettato questa volontà».
Che cosa ha provato debuttando ad Anfield? «Ero consapevole che non avremmo mai potuto perdere la partita con il Liverpool, finita 3-3. Era una questione di giustizia personale: in dicembre, con lo Shakhtar avevamo chiuso al primo posto e, dopo la Supercoppa, avremmo potuto vincere anche il titolo ucraino. Se ti comporti bene, ogni tanto la fortuna ti ridà ciò che ti è stato tolto e, da Lassù, qualcuno ci ha lanciato uno sguardo benevolo. Brividi? Io l’avevo detto ai miei collaboratori, con me dai tempi di Foggia: oggi non perdiamo».
Che cosa manca alla Serie A per diventare come la Premier? «Non credo che la Serie A sia così in ritardo rispetto alla Premier. Lo è certamente quanto a strutture, stadi, centri sportivi. Calcisticamente siamo diversi rispetto al campionato inglese. Viviamo il calcio in maniera differente, ma succede lo stesso in Sudamerica. Tuttavia, a livello tattico gli allenatori italiani sono molto preparati: è difficile giocare contro le loro squadre».
Mercoledì scorso, a Tirana, Roberto Mancini ha fatto esordire Simone Pafundi in Nazionale all’età di 16 anni 8 mesi e 2 giorni. E Giacomo Raspadori, 22 anni, campione d’Europa, da lei lanciato in orbita nel Sassuolo, ne è già diventato un punto fermo. Stupito? «Mancini ha un grande merito, facendo esordire i ragazzi in Nazionale. Credo sia sbagliata la distinzione tra giovani e vecchi, la distinzione giusta è fra giocatori bravi e giocatori non bravi: Ibrahimovic ha 41 anni e rimane sempre lui. I giovani maturano giocando, non lo fanno da soli stando su un albero. Per me è sempre stimolante e piacevole impiegare i ragazzi in prima squadra. Mancini sta facendo un grande lavoro e l’Italia meritava di andare al Mondiale. Purtroppo, dopo il titolo europeo la corsa alla qualificazione è nata male. Raspadori? Prima di tutto è un giocatore vero. Io lo vedo centravanti, prima punta: dentro l’area ha la capacità di essere decisivo. Dentro o sinistro, lui batte i corner allo stesso modo con entrambi i piedi. Mancini è uno di quelli che ha creduto di più in lui».
E Scamacca, Frattesi e Berardi? Sono altri tre giocatori che lei conosce molto bene... «Di Scamacca avevamo capito tutti il potenziale, ma nel Sassuolo c’era Caputo, all’epoca uno dei più forti attaccanti italiani; c’era Defrel, di cui non si coglie appieno il valore e c’erano Scamacca e Raspadori. Si è scelto di tenere Raspadori, ma conoscevamo il valore di Scamacca. Su Frattesi ho sbagliato, non credevo fosse così completo: Frattesi è un grande calciatore. Berardi in Premier? Berardi me lo porterei in tutte le squadre».
Purtroppo, gli azzurri non ci sono al Mondiale. Per chi farà il tifo? «Per le squadre dei miei calciatori. Forse per l’Argentina del mio Mac Allister. Tuttavia, considerato il modo con cui mi hanno accolto gli inglesi, sarei contento se vincessero loro».
All’inizio della stagione, prima del Brighton, il suo nome era molto gettonato dal totoallenatore della Juve in crisi. Se l’avessero chiamata a Torino, avrebbe accettato? «Non è bello parlare di un’altra squadra e di un altro allenatore, soprattutto se sono in buoni rapporti come con Allegri. La Juve ha avuto molti infortunati pesanti, da Pogba a Chiesa… Che cosa avrei fatto se mi avessero chiamato? La questione non sarebbe stata soltanto accettare o no. La Juve è una delle squadre più importanti, però le cose bisogna farle assieme per lavorare nel modo giusto. Per me, ciò che è più importante è andare in un posto e sentirmi gratificato dal lavoro che faccio. Per esserlo, devi essere seguito; altrimenti, vai, appoggi il sedere su una panchina prestigiosa, ma non a modo tuo e allora non ne vale la pena. Né per la Juve né per la Premier League né per altro».
Ultima domanda: riuscirà Marcos Antonio, che lei valorizzò nello Shakhtar, a inserirsi pienamente nella Lazio di Sarri? «Marcos Antonio ha bisogno di tempo per recepire le idee del calcio di Sarri, sia difensive sia offensive. Ha davanti a sé Cataldi, il mio Cataldi di Benevento che nella Lazio sta facendo molto bene. Però Marcos Antonio si prenderà il suo spazio: è un brasiliano con testa tedesca, un professionista esemplare».
Fonte: CdS