L’approfondita analisi di Marco Bellinazzo, giornalista del Sole 24 Ore, su questo business mondiale – La nuova guerra del calcio (Feltrinelli, pagg. 368, euro 22) – parte da una foto dei potenti in copertina (Infantino, Putin e il principe Bin Salman) e una riflessione su Maradona.
Perché Diego?«Perché sono napoletano e tifoso del Napoli, da bambino andavo in Curva B ad assistere alle partite. La morte di Maradona è stata un fenomeno di commozione mondiale che mi ha fatto riflettere su un aspetto: il modello di calcio che si sta costruendo non può rinunciare alla passione popolare e all’aspetto identitario. Quel doloroso evento di due anni fa come spunto per l’analisi su cosa è accaduto negli ultimi 20 anni e cosa può accadere».
Il calcio è un mostro finanziario?«Sono avvenute tante cose di cui l’opinione pubblica non si è accorta. Il calcio, un fenomeno che coinvolge 4 miliardi di persone in occasione di un Mondiale, è stato sempre usato come uno strumento per imporre un’ideologia, però nel 2003 c’è stato il passaggio cruciale. Putin, per nascondere le atrocità della campagna in Crimea e rafforzare il nuovo establishment russo, ha mandato uno dei più fidati oligarchi, Abramovic, a prendere il Chelsea. Il calcio, in quel momento, non è stato più il pretesto ma il contesto. Ai russi sono seguiti gli arabi, i cinesi, gli americani, che hanno acquisito 60 squadre in Europa in vista dei Mondiali 2026 che vedranno in campo 48 nazionali. Lo scontro si è poi spostato al livello più alto».
Quando?«Inghilterra e Usa, dopo aver perso i Mondiali assegnati a Russia e Qatar, hanno sollecitato l’attenzione della Fbi su scandali che, vorrei ricordarlo, erano stati fatti emergere anzitutto da Maradona. È stato defenestrato Blatter, sostituito da Infantino, e si è dato più potere all’assemblea che è composta da un numero di Paesi superiore a quella dell’Onu. E ogni Paese vale un voto. La vera battaglia adesso è tra la Fifa e la Uefa. La prima rappresenta il potere politico, l’altra quello economico grazie agli introiti Champions».
Il business è la ragione per cui sarebbero stati calpestati i diritti umani in Qatar?«Nella cosiddetta Area Mena ci sono 500 milioni di abitanti con una grande propensione verso il calcio e le tecnologie. Sotto il profilo industriale, il Mondiale doveva essere organizzato qui. Le controindicazioni sono appunto il rispetto dei diritti umani e gli standard di sicurezza dei lavoratori. Ma è ipocrita che il mondo se ne accorga adesso: non vi è nulla di più politico del calcio. Tocca a chi organizza un evento in un Paese simile, con l’obiettivo di creare ponti come sostiene Infantino, pretendere il rispetto dei diritti umani».
Il secondo Mondiale senza l’Italia: un problema soltanto tecnico?«No, è la conferma dello stato comatoso del nostro calcio, anche se non siamo inferiori alle 32 nazionali che sono in Qatar. Bisogna fare di più sotto l’aspetto della formazione: il livello medio dei centri sportivi dei club italiani è scarso, basta un raffronto con le Academy in Europa. Eppure, una percentuale dei diritti televisivi dovrebbe essere destinata alle società che utilizzano più giovani ma ciò non accade perché non è stato fatto il decreto attuativo. E pensare che dovremmo essere un faro…».
In questo panorama emerge il modello Napoli.«Non ricordo negli ultimi 20 anni una società che abbia tagliato, e non poco, i costi e migliorato così tanto il rendimento, al punto da essere un punto di riferimento per il calcio europeo, sovvertendo i rapporti di forza economica, come si è visto nei confronti col Liverpool. Un esempio virtuoso a cui dovrebbero ispirarsi le altre società italiane, che devono puntare su sostenibilità – difficile senza buoni stadi – e competenze. Una nuova strada. E mi auguro che un titolo possa sollecitare il Napoli verso la realizzazione di un grande centro sportivo che faccia da hub per tutti i giovani del Sud».
F. De Luca (Il Mattino)