Napoli e il Napoli nel cuore, l’Uruguay e il Mondiale nella testa. Edi Cavani è pronto per il suo quarto Mondiale: per conquistarlo ha scelto Valencia, convinto tra gli altri da Rino Gattuso, che conosceva da avversario. «Quando l’ho rivisto, come prima reazione, così, istantanea, mi è venuto da ridere. Davvero. In testa mi sono tornati ricordi di quando giocavamo contro, delle scintille, degli scontri, degli screzi. Del suo e del mio modo di giocare e d’intendere la partita. E improvvisamente eccoci qui nel suo ufficio alla Ciudad Deportiva di Paterna, dove si allena il Valencia. L’ho guardato, abbiamo sorriso, ci siamo abbracciati. È stato molto bello, un incontro pieno di rispetto. Il Valencia ha fatto un’ottima scelta: Gattuso è uno che parla chiaro, che dice le cose con proprietà, un tipo sincero, leale e autentico che nel corso di una carriera eccezionale è riuscito a mantenere la sua essenza naturale, vitale. Ha tanto da insegnare a questa squadra di giovani che ha voglia di rilanciarsi».
Siamo partiti con un pezzo d’Italia, restiamo qui. Napoli. Edi sospira. «Un pezzo di cuore. Per tanti motivi: il passato, ma anche il presente. I miei primi due figli, Bautista e Lucas, vivono li, hanno 9 e 11 anni, giocano a calcio e ovviamente tifano Napoli».
Partiamo dai ricordi. «Tutte le squadre dove giochi ti lasciano qualcosa però Napoli ha un posto speciale nella mia memoria, perché quei tre anni sono stati l’embrione che ha fatto sbocciare una carriera che poi è proseguita a Parigi e a Manchester. Io sono un tipo riservato, poco abituato ad esternare le emozioni. E l’affetto che ricevetti a Napoli dal primo momento mi emozionò, e fece scattare dentro di me qualcosa di speciale. Appena arrivato in città fuori dall’hotel c’era un sacco di gente. E allo stadio… incredibile. Il presidente De Laurentiis voleva che facessi un giro del San Paolo per salutare come se fossi il papa, ma io non me la sentivo, non avevo giocato nemmeno un minuto, non avevo fatto niente per quella gente che mi stava accogliendo in quel modo straordinario. Quelle facce, quell’affetto, quella partecipazione, quell’energia… fui travolto. Sentivo che dovevo ricambiare in qualche modo, e detti tutto me stesso per farlo. Anche per questo la vittoria della Coppa Italia dopo tanti anni senza un trofeo, contro quella Juve fortissima, fu qualcosa di magico e d’indelebile. Magari non era un grandissimo titolo, ma arrivò al termine di un cammino che facemmo uniti alla città, e la condivisione della gioia fu totale».
E oggi? Il Napoli ce la può fare a vincere lo scudetto?«Oggi lo seguo da lontano, ma con grande partecipazione e attenzione e sono felicissimo per ciò che stanno facendo. Qui a Valencia hanno un tifoso in più. Non so se ce la può fare a vincere la Serie A, ma lo spero vivamente. E mi sembra che ci siano tutte le condizioni necessarie».
Ovvero?«Una società seria e organizzata che sa pianificare e muoversi bene sul mercato, un grande allenatore, giocatori interessanti e affamati, e la solita eterna, incombustibile, passione del pubblico. Nel calcio non si sa mai, e in questa strana stagione col Mondiale in mezzo ancora di meno, la Serie A è incredibilmente competitiva, però la partenza del Napoli è stata eccezionale. Il mese di gennaio sarà fondamentale».
Cambiamo di azzurro. Qual è l’obiettivo dell’Uruguay in questo Mondiale? «Sempre lo stesso: arrivare fino in fondo. Il Maestro Tabarez ha posto fondamenta solide, poi siamo entrati in una dinamica negativa di risultati e c’è stato un cambio. Diego Alonso ha cambiato alcune cose a livello metodologico, ma la base è la stessa: ci siamo noi veterani e ci sono ragazzi giovani molto interessanti. Generazioni diverse, stessa idea di vedere il calcio e la vita. Siamo consci della nostra forza, che deriva dall’unità del gruppo. Per questo non ci poniamo limiti, non fa parte della nostra mentalità».
Ecco, parliamo di mentalità. Questa è una domanda ricorrente, ma sempre attuale: come fa un Paese piccolo come l’Uruguay ad essere così competitivo nel calcio? «Perché veniamo da una nazione dove si gioca ovunque, su ogni superficie e con ogni clima, e la cosa inizia a dare ai bambini voglia e senso di competizione. Quando entri nel calcio formativo sei preparato e gli allenatori completano il processo di crescita competitiva. Ci formiamo così, e riusciamo a mantenere quell’essenza che il calcio moderno fa di tutto per togliere. Le reti sociali e la tecnologia hanno fatto sì che la mentalità del calciatore sia cambiata. Prima in una squadra l’obiettivo era lo stesso per tutti, oggi per motivi diversi, soprattutto per questioni legate alla fama, c’è gente con obiettivi diversi, diciamo personali e non di gruppo. Io vengo dalla vecchia scuola, quella nella quale t’insegnano che la cosa più importante, e il meglio che ti possa capitare, è la vittoria di squadra. Per me nel calcio non c’è uno che ti fa vincere le partite da solo. Non esiste e non esisterà mai. Ci può essere un giocatore che fa una magia, un golazo, ma per difendere questo golazo hai bisogno di compagni che corrono dietro al pallone e di un portiere che dà sicurezza. Cose che spesso vengono messe da parte per dare spazio a chi è famoso, al Pallone d’Oro, al Pichichi, a chi fa cinquanta assist. Queste cose distolgono l’attenzione di una squadra dal suo obiettivo comune, condiviso. Nella nostra nazionale, ma direi anche nel nostro Paese, questo tipo di persone e di gesti non sono ben visti. È un tema culturale e sociale: a noi piace il compagno che dà tutto per la nazionale senza pensare a come si chiama, chi sia e quanto sia famoso. Nella ‘Selecciónì’ si viene a dare tutto, siamo tutti uguali, siamo qui per difendere il Paese, la bandiera e portarla il più in alto possibile. Lavoriamo tutti per questo e siamo coscienti che nessuno da solo può ottenerlo».
Parla di gruppo che deve prevalere sui singoli: negli ultimi anni ha condiviso lo spogliatoio con Neymar e Cristiano Ronaldo, giocatori la cui immagine ha trasceso il ruolo di calciatore. Che idea si è fatto? «Visto che io nel calcio non ho mai avuto la voglia di essere più di qualcun altro ho sempre analizzato a fondo i miei compagni, arrivando alla conclusione che spesso il calciatore più famoso o riconosciuto risalta più dei compagni perché ha la necessita di farlo. Ognuno ha la sua forma di vivere e di essere, e ci sono calciatori che fanno cose per le quali sento una forma di rifiuto totale, ho visto cose che mi hanno aiutato a crescere come persona facendomi capire che nella mia vita le priorità sono altre e sono lontane dalle reti sociali. Detto questo, io sono sempre stato molto professionale e perfezionista, e in quegli stessi compagni ho visto cose che mi facevano pensare ‘Questo è l’esempio’ da seguire, comportamenti e mentalità utili per qualsiasi essere umano e non solo per un calciatore che vuole restare a certi livelli».
Fonte: Gasport