Una volta, e forse Osimhen non era ancora nato, i gol si contavano: e se andavi in doppia cifra, quello era uno status. Poi, sarà colpa degli algoritmi, hanno cominciato a pesarli: e Osimhen, che ormai stava dentro l’area di rigore, un bel giorno ha scoperto che non bastava segnarne tanti – dieci nella sua prima stagione, infarcita di ogni forma di infortunio, soffocata dal Covid; poi diciotto nella stagione successiva, tanto per gradire con una lunga sosta in infermeria – ma bisogna dargli chili o anzi no, punti o anche un’allure. In questi settecentosessantrè giorni trascorsi pure in sala operatoria a lasciarsi innestare diciassette viti, la pantera del gol s’è inventato un calcio tutto suo, diabolico e famelico, poi è uscito dagli equivoci per tacitare chi, con il righello tra le mani, s’era messo a calcolare la profondità delle sue prestazioni («non segna con le grandi», come se non lo fossero l’Atalanta e la Lazio o la Fiorentina), stavolta con prepotenza s’è impadronito della scena ancor prima che del pallone ed ha stravolto le nuove regole dell’analisi grammaticale.
CHRIS SI è FERMATO. Mentre Roma-Napoli sta per finire e nell’Olimpico c’è il senso compiuto della amarezza per aver dissipato, Victor Osimhen ha fatto qualcosa di nuovo, magari anche di antico: sapeva che la costruzione sarebbe arrivata a lui, che partendo da Di Lorenzo e passando attraverso il sinistro arcuato di Politano, ci avrebbero provato a lanciargli la palla nello spazio. Però Chris Smalling, il miglior “Mouro” giallorosso, stava proprio lì, davanti, come un secondino dinnanzi alla cella: e Osimhen, una gazzella o pure un felino, ha piantato lo scatto, ci ha messo la rapidità e la furbizia, ha scippato il pallone e poi l’ha scaraventato come fanno i centravanti senza tempo e senza epoca.
TI BLIND(O) IO. Era già successo qualcosa di famelico, appena una decina di giorni prima, in quella Grande Abbuffata con l’Ajax, il 4-2 al Maradona, griffato nel finale da questo scugnizzo venuto da Lagos per fare di Napoli la sua gigantesca vetrina internazionale a cielo aperto. Nell’ombra d’una serata fantascientifica, forse perché ancora scioccato dalle due lezioni consecutive rimediata tra la Cruijff Arena e il Maradona, Daley Blind, un signor qualcuno – una vita con l’Ajax, quattro anni allo United, “solo” 94 presenze con la Nazionale olandese – ha avuto un attimo d’esitazione, un battito di ciglia, e s’è accorto che il ghepardo aveva ghermito il pallone.
REPLAY. Victor Osimhen ha dovuto buttare nella cesta dei panni sporchi troppe occasioni – 21 partite nella stagione dell’esordio; 15 nel campionato che sta alle spalle; altre sei per il momento: l’opinione diffusa della matematica è che senza trentanove partite ti possa venire l’ansia da prestazione – e quindi, svestitosi anche di quella natura un po’ indisciplinata, ha messo la testa a posto, ha seguito i consigli di Spalletti, ha “studiato” ed ha capito che si può restare se stesso, un bulimico del gol, però dando pure un’occhiata intorno, giocando secondo codici da assecondare.
LEADER. Alla sua spensieratezza da naif, Osimhen ha arricchito il campionario di quell’esuberanza stavolta ordinata, d’un senso chirurgico delle propria presenza, e s’è industriato per ingigantire la sua figura, già ridondante: da centravanti è diventato leader tecnico, a Roma, contro una squadra con una sua spiccata organizzazione difensiva, s’è impadronito del reparto, l’ha assorbito, ha lasciato che Lozano e Kvaratskhelia restassero nelle proprie praterie per la doppia fase, ha accettato lo scontro frontale con Smalling, l’ha sfiancato, poi l’ha disorientato con quell’espressione subdola, da “maledetta canaglia”. Perché l’Osimhen contemporaneo non può sperperare neanche un secondo. Ha già dato. E (forse) il meglio deve ancora arrivare.
Fonte: CdS