Così scrive Roberto Beccantini sulle pagine del CdS sul centrocampista slovacco che si sta confermando giocatore in forma ma anche instancabile:
“E’ incredibile come Stanislav Lobotka sia diventato la matita silenziosa del Napoli. Uno di quelli che i tifosi faticano a inquadrare, attratti dai gol, dal dribbling, arma fatale e tormentata, dall’ovvio che, per fortuna, non sempre è oppio. Non a caso Pier Paolo Pasolini scriveva che il capocannoniere del campionato sarà, nei secoli, «il miglior poeta dell’anno». Perché nessun gesto tecnico raggiunge l’orgasmo della rete. Soprannominato «Stukas», giocava all’ala e «scartava» la vita. Non per schivarla, ma per divorarla.
Gennaro Gattuso lo ha accolto dal Celta di Vigo, Luciano Spalletti lo ha trasformato da supplente in docente. Slovacco di Trencin, il 25 novembre ne compirà 28. Alto 1,70, indica l’almanacco. A conferma che la stazza non è più un muro. Le correnti di pensiero spesso confliggono. Per Vujadin Boskov, detonatore del collettivo era il centrocampo. Osvaldo Bagnoli, in compenso, privilegia gli attaccanti: da come lavorano, lavora la squadra. Per l’applicazione feroce che ci mette e le vaste zolle che ara, lo chiamo «Robot-ka». Seguitelo: sembra telecomandato dalla bulimia podistica, dalle lavagne del mister. Prende palla, la cesella, dribblando o caracollando, e poi la consegna a domicilio, postino seriale e puntuale, un Luis Del Sol adeguato al «fast-foot», un Arthur inserito in un sistema più congeniale ai suoi mezzi e lontano dal «casino disorganizzato», tanto per parafrasare Eugenio Fascetti, che lo incatenò alla Juventus. Paolo Di Canio ha scomodato il righello di Xavi. Addirittura.
La pressione non lo spaventa. Il «movimiento» dei compagni gli offre una vasta gamma di passaggi, corti o lunghi. Ecco: l’arte di smarcarsi per agevolare, e tutelare, il «distributore» di turno. La parcheggiamo, sbuffanti, alla periferia delle analisi, ritenendola obsoleta, noiosa. Al contrario, rimane uno snodo cruciale. Vi giro questo aneddoto: all’epoca del suo Milan, il Milan che divertiva perché si divertiva – esattamente come il Napoli odierno – Arrigo Sacchi sbirciò le pagelle di una partita e isolò un «cinque». Sbagliato, disse. In che senso? rispose l’autore, seccato: non ha toccato palla. Replica: proprio perché non l’ha toccata. Dettava i lanci, spalancava i sentieri: sbagliava chi lo ignorava, non lui. Amen.
Zambo Anguissa e Piotr Zielinski ne hanno integrato lo stile, i gusti, la «cazzimma». Se Khvicha Kvaratskhelia è la vetrina del Napoli, e Giacomo Raspadori la reazione orizzontale alla tirannia verticale di Erling Haaland, il piccolo Stanislao è la rotella che scopri «dopo», non prima e nemmeno durante. Al netto dei singoli repertori, e delle barriere temporali che ne separano le carriere, ricorda l’innesto di Francesco Romano nell’autunno del 1986. L’edicola sbadigliò. Viceversa, aiutò Ottavio Bianchi ad addobbare la Camelot di Diego. E fu scudetto. Il primo.
«Robotka» è il gregario che ha scalato il gruppo, dove pedalava da clandestino, sino a regolarne la cadenza e a dosarne gli strappi. La stagione, prossima alla cesura mondiale, lo aspetta al varco. Salire sul suo carro, oggi, è facile. Però conviene. Posso”?
Fonte: CdS