Santità, Napoli è una metropoli che s’affaccia sul Mediterraneo e che, proprio per questo, s’affaccia, in modo particolare, anche sul suo pontificato. È infatti il bacino del mare nostrum, luogo di transito delle migrazioni e quindi delle grandi tragedie di questo tempo, l’area privilegiata dei suoi interventi, ora concentrati sul tragico ritorno della guerra nel cuore dell’Europa e su una pandemia che, oltre a provocare lutti, sembra aver colpito e scosso dal di dentro l’umanità.
«Sono stato a Napoli. In qualche modo mi ricorda Buenos Aires. Perché mi parla del Sud. Ed io sono proprio del Sud. Ho viaggiato nel Mediterraneo, il mare nostrum, e ho visto con i miei occhi gli occhi dei migranti. Ho visto la paura e la speranza, le lacrime e i sorrisi carichi di attese troppo spesso tradite. Non potrò mai dimenticare le parole dette a loro a Lesbo nel 2016 dal mio amico e fratello, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo: Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura di voi non vede i vostri figli. Quando penso al Mediterraneo, a Lesbo, a Cipro, a Malta, a Lampedusa, penso che le terre che questo mare bagna sono proprio quelle in cui Dio si è fatto uomo. Gesù è nato qui, questa che è stata la sua culla si sta trasformando in un cimitero senza lapidi, un mare mortuum. E così penso anche che non dobbiamo dimenticare che il futuro di tutti sarà sereno solo se sarà riconciliato con i più deboli. Perché quando i poveri vengono respinti si respinge Dio che è in loro, e si respinge la pace. Per questo metto sempre in guardia da chi vorrebbe tessere il mondo di paura, di diffidenza, di muri e di guerre; invece che di fiducia, di affidamento, di ponti e di pace.
È facile spaventare l’opinione pubblica instillando la paura dell’altro. Più difficile è parlare di incontro con l’altro, denunciare lo sfruttamento dei poveri, le guerre spesso largamente finanziate, gli accordi economici fatti sulla pelle della gente, le manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio. Ma questo è quello che siamo chiamati a dire come cristiani: ragionare con uno schema di pace e non di guerra, di amore e non di odio; anche nei momenti che ci appaiono più bui».
Ma come usciremo dalla guerra? Come sarà il mondo dopo la guerra?
«Oggi ci misuriamo con la guerra in Ucraina. E anche con tante altre guerre. San Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002, all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle, scriveva che non si può ristabilire appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e il perdono che è una forma particolare dell’amore. Questa è la strada. C’è un tempo per ogni cosa. Prima del perdono viene la condanna del male. Essenziale è però non coltivare la guerra, ma preparare la pace, seminare la pace. Non rassegnarsi all’idea che per vincere il male bisogna usare le sue stesse armi. Come ho ribadito nell’incontro in Kazhakistan con i leader religiosi, solo il dialogo è la via necessaria e senza ritorno. E occorre dialogare con tutti».
Di fronte alla vastità dei problemi viene da chiedersi se e quale ruolo possa avere Napoli, il suo territorio e per estensione tutto il Mezzogiorno d’Italia, in una rinascita più volte messa in conto ma mai realizzata, o almeno avviata in senso concreto. Sembra scaduto anche il tempo della vecchia Questione meridionale, seppure non ci si stanca di annunciare, di volta in volta, qualche imminente cambio di rotta.
«È successo spesso, nella nostra navigazione come umanità, che invece di un necessario cambio di rotta ci siamo accontentati, come scrisse Kierkegaard, di una ininfluente, insignificante, variazione del menu del giorno, quello che il cuoco serve sulla nave, mentre la rotta restava sempre la stessa. Ma siamo noi a tracciare la rotta. Passo dopo passo. Con i nostri pensieri e con le nostre azioni. Carlo Levi, nel suo libro Cristo si è fermato a Eboli ha scritto che non può essere lo Stato, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. Io a questo aggiungerei che lo Stato, gli Stati, siamo noi, con la nostra capacità (o incapacità) di costruire insieme istituzioni, sistemi normativi e comportamenti (individuali e collettivi) che abbiano come unico fine il bene comune. Qui è la radice dei nostri problemi: nella disabitudine a pensare al bene comune. Ma se guardiamo al tempo che viviamo, siamo proprio di fronte alla possibilità di una conversione di rotta. Se penso a Napoli, alla sua storia, alle difficoltà che la hanno attraversata, penso anche alla straordinaria capacità creativa dei napoletani. E penso a come la si possa usare per tirare fuori il bene dal male, la gioia di vivere dalle difficoltà, la speranza anche laddove sembra ci sia solo scarto ed esclusione. A questo ruolo di esempio, penso Napoli possa sentirsi chiamata. Il tempo non è mai scaduto, c’è sempre tempo per cambiare rotta. E il tempo è anche questo. E ci sfida tutti. Come ho detto nell’ora più buia della pandemia, nel momento straordinario di preghiera a piazza San Pietro, pensando alle radici del male del nostro tempo: avidi di guadagno ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo pensato di rimanere sempre sani in un mondo malato. Questo è oggi un tempo di prova, un tempo di scelta. Il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta.
Napoli è in qualche modo un paradigma della questione meridionale in Italia. Ma il tema del Sud è universale. Riguarda la diseguaglianza. La questione meridionale è una questione universale, riguarda il futuro di tutto il mondo. Per questo con la Laudato sì ho chiesto di pensare a uno sviluppo sostenibile e integrale, nuovi modi di intendere l’economia e il progresso, e ho sottolineato le grandi responsabilità della politica, della economia, di ognuno di noi. Per questo più volte ho chiesto e continuo a chiedere, in nome di Dio, ai gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire i bisogni primari della loro gente e di condonare quei debiti tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli. Per questo continuo a chiedere che le grandi compagnie smettano di distruggere i boschi, di inquinare i fiumi e i mari, e di intossicare i popoli e gli alimenti. La drammatica alluvione nelle Marche, che ha provocato lutti, rovine e dolore in tutto il Paese, rappresenta l’ulteriore conferma che la sfida del clima merita la stessa attenzione del Covid e della guerra. Occorre cambiare totalmente registro e smettere di imporre, a livello generale, strutture monopolistiche che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato. Per questo continuo a chiedere ai fabbricanti e ai trafficanti di armi di cessare totalmente la loro attività, che fomenta la violenza e la guerra mettendo in gioco milioni di vite. Come pure ho chiesto ai giganti della tecnologia di smettere di sfruttare la fragilità umana per ottenere guadagni, e di non favorire l’adescamento di minori nel web, i discorsi di odio, le fake news, le teorie cospirative e la manipolazione politica e di liberalizzare invece l’accesso ai contenuti educativi.
Ai governi in generale, ai politici di tutti i partiti, ho chiesto e continuo a chiedere di lavorare per il bene comune, e il coraggio di guardare ai propri popoli, di guardare negli occhi la gente, di sapere che il bene di un popolo è molto più di un consenso tra le parti; che non ascoltino soltanto le élite economiche tanto spesso portavoce di ideologie superficiali che eludono le vere questioni dell’umanità. Serve creatività. Una creatività indirizzata al bene. A un nuovo modello economico. I napoletani di creatività ne hanno tanta. Importante è indirizzarla al bene. Importante è la rotta».
È difficile nascondere come la speranza, a Napoli e in tutto il Sud, sia tuttora offuscata da molti fattori, primo fra tutti la nefasta incidenza dei fenomeni di malavita organizzata. Non si può negare che questa malapianta sia alimentata, a sua volta, da una serie di storture e fragilità che chiamano in causa, quando non sono orientate al bene comune, le strutture e le istituzioni civili. Lei stesso nella visita alla città nel marzo 2015, parlò a Scampia della corruzione che spuzza
«È vero. La malavita organizzata è una piaga. Riguarda tutti. Il Nord e il Sud del mondo. L’ho detto proprio a Napoli: Tutti noi abbiamo la possibilità di essere corrotti, nessuno di noi può dire: io non sarò mai corrotto. C’è davvero tanta corruzione nel mondo! Una cosa corrotta è una cosa sporca, è una cosa che puzza. O spuzza come avevo detto quella volta con una parola che ricorda il termine dialettale piemontese spussa. Come un animale morto che si sta corrompendo, così anche una società corrotta spuzza. E anche un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione spuzza. Se penso però a Napoli, alla Campania, penso anche a don Peppe Diana, a San Giuseppe Moscati e a Bartolo Longo, l’apostolo del Rosario. Al coraggio delle scelte. Al profumo di bene. La speranza mai deve essere offuscata. Tutto può essere riscattato dal bene. Serve una conversione di rotta».
Sono tante le emergenze di questa nostra terra. Molte le abbiamo viste riflesse nelle sue encicliche sociali, a partire dalla Laudato sì. Il dramma della Terra dei fuochi è a questo proposito – uno sfregio alla natura, che gli abitanti della zona pagano a caro prezzo e spesso con la propria vita. Prime vittime sono i bambini. Quando non si ammalano o muoiono si vedono precluso il futuro.
«Tutto è collegato. L’ho detto tante volte. Il dramma della Terra dei fuochi è collegato ai tanti drammi di cui soffre la terra. E i nostri errori è vero – ricadono sui più piccoli, ai quali stiamo rubando non solo il futuro, ma anche il presente. Occorre ripartire da questa consapevolezza, che il mondo è interconnesso. Questo significa non solo riconoscere sulla base delle conseguenze così evidenti, così visibili gli errori commessi da ciascuno (lo ripeto, da ciascuno), ma anche individuare nuovi comportamenti, cercare nuove soluzioni che si facciano carico di questa verità. Non si può agire da soli. È indispensabile che oggi ogni singola persona e l’intera comunità internazionale assumano come prioritario l’impegno ecologico con azioni collegiali, solidali e lungimiranti. Ed è indispensabile che le generazioni più giovani non si facciano rubare il futuro da chi li ha preceduti. Mi piace ricordare qui una riflessione di un santo latinoamericano Sant’Alberto Hurtado che una volta si domandò: Il progresso della società sarà solo per arrivare a possedere l’ultimo modello di automobile o acquistare l’ultima tecnologia sul mercato? In questo consiste tutta la grandezza dell’uomo? Non c’è niente di più che vivere per questo? No, non è questo il progresso. Noi tutti siamo stati creati per qualcosa di più grande!».
Proprio la condizione dei bambini, o dei giovanissimi che si affacciano alla vita attiva, è il dramma più intollerabile di una città celebrata spesso per il buon cuore e l’allegria della sua gente. La malavita a Napoli apre il suo terribile reclutamento fin dagli anni dell’infanzia. Le babygang sono una triste e drammatica realtà che spesso è coinvolta in prima persona negli episodi di violenza e di sopraffazione. Sappiamo quanto le stia a cuore la sorte dei bambini e in genere di tutte le fragilità fino agli anziani che subiscono vessazioni e violenze
«Lo ripeto: la malavita non è solo un problema di Napoli. Per me il vero volto di Napoli è un altro. È quello della gente buona, accogliente, generosa, ospitale, creativa nel bene. È quello delle bellezze naturali del suo golfo, che incantano chiunque abbia avuto il privilegio di vederle rimanendone incantato e conservando il desiderio di potere un giorno tornare. È vero però che possiamo partire anche da Napoli per parlare dell’oltraggio fatto ai bambini quando li si priva della loro innocenza, li si deruba della loro infanzia, per portarli sulla strada del crimine. Non dobbiamo scaricare sui più piccoli le nostre colpe. Tanti bambini nel mondo non sanno nemmeno cosa sia la scuola, e spesso cadono nelle mani di delinquenti che li educano alla criminalità, alla violenza, anche alla guerra. Pensiamo ai bambini soldato. A come l’infanzia viene strappata a forza dalle loro vite, e la loro innocenza violata, il loro futuro trasformato in un labirinto. Ognuno di loro è un urlo di dolore che sale a Dio e accusa chi ha messo le armi nelle loro piccole mani.
Siamo tutti responsabili di questo, quando voltiamo la testa dall’altra parte, quando ci diciamo che questa tragedia (i bambini soldato, i bambini manovalanza della criminalità organizzata) non ci riguardi. Per questo, anche per questo, dobbiamo partire da noi stessi. Cambiare noi stessi. Stimolare un cambiamento negli altri. Non è impossibile. Tutti possono cambiare vita, cambiare strada. Quanto alla fragilità, tutti siamo fragili. Ma la fragilità, l’accettazione del proprio limite, la consapevolezza di ciò che ci manca e il discernimento in questo fra il bene e il male, è la molla che può spingerci alla ricerca del bene comune. La sensazione di onnipotenza è ciò che ci porta invece alla negazione dell’altro, degli altri; e a tagliare anche le nostre radici, a considerarle un peso, una zavorra. Quando questo accade, quando tradiamo la fiducia dei bambini o consideriamo gli anziani uno scarto di cui liberarsi, coltiviamo in realtà il nostro scontento, roviniamo la nostra storia e il nostro futuro».
Napoli è città difficile da descrivere e raccontare, con i suoi troppi luoghi comuni e gli stereotipi che spesso ne falsano i connotati. Il Mattino è un giornale insediato a Napoli e nel Sud da 130 anni con un suo carico di prestigio e di autorevolezza. Cosa deve fare, a suo avviso, un giornale che pretende di rappresentare degnamente e con puntualità i problemi dei suoi territori, le ferite ma anche le realtà più edificanti? Cosa si aspetta da una corretta informazione?
«Da un giornale mi attendo sempre una attenzione particolare al territorio, ai luoghi che racconta, alle parole che usa, alle immagini che sceglie, a ciò che condivide sui social media. Quelle parole, quelle immagini, quella condivisione contribuiscono a creare l’identità di un luogo. Da un giornale mi aspetto la capacità di collegare i fatti, la memoria, l’approfondimento. Mi aspetto, attraverso la lettura di un giornale, di essere interrogato dalla realtà, sfidato a capirla, a leggerne i segni di dinamismo. Non amo invece le risposte semplici alle questioni complesse, gli stereotipi, il correre subito ad una conclusione affrettata, gli schematismi artefatti, la saga del chiacchiericcio, la tentazione superba di sapere già tutto. È una questione di responsabilità. E anche di umiltà nella difficile ricerca della verità, nella attenzione a non offrire una falsa rappresentazione della realtà, nella ammissione del proprio limite.
Mi è stato raccontato che la fondatrice del vostro giornale, Matilde Serao, proprio questo diceva di se stessa, che lei solo era e sempre aveva voluto essere una umile cronista della propria memoria. Occorre non essere troppo pieni di sé per avere, dentro di sé, lo spazio necessario ad accogliere il racconto della realtà. E conservarlo nella memoria. Occorre coltivare l’intelligenza del dubbio, ma non dubitare dell’intelligenza. E dunque studiare, approfondire la realtà. Saper vedere in essa anche la possibilità di cambiamento in meglio. Non limitarsi ad una narrazione quasi pornografica del male, che ti ipnotizza, ti blocca. Ho già detto una volta che il buon giornalismo ha bisogno di tempo. Il tempo dell’ascoltare e del vedere di persona, il tempo per uscire dalle redazioni, camminare per le città, incontrare le persone, consumare le suole delle scarpe; perché non tutto può essere raccontato attraverso le email, il telefono, o uno schermo. E anche se è difficile occorre sottrarsi alla tirannia dell’essere sempre online, sul telefonino e sul computer.
Rimango sempre molto colpito quando leggo le storie di giornalisti uccisi proprio mentre facevano il loro lavoro e lo facevano così: con coraggio, con pazienza, con spirito di verità. So che questa è la storia di un giovane vostro cronista, Giancarlo Siani. Aveva scelto la parte giusta da cui stare. Ha pagato con la vita. Ma la sua lezione rimane. Rimarrà per sempre. È un esempio per il giornalismo. È un esempio per i giovani del Sud».
Molti giovani del Sud, senza lavoro, sono costretti a emigrare in realtà produttive più ricche e in contesti socio-economici più favorevoli. Cosa Lei si sente di dire a questi giovani? Li inviterebbe a rimanere al Sud per dare un contributo costruttivo al riscatto dei loro territori?
«Un modello economico sbagliato sta facendo di troppi giovani uno scarto, senza lavoro. Questo è grave. Questo va denunciato. Questo va cambiato. Ai giovani direi però di avere coraggio. Di guardare oltre l’orizzonte. Non si può vivere senza coraggio! Il coraggio per affrontare le difficoltà di ogni giorno. Il coraggio per provare a cambiare ciò che va cambiato, di non accettare come inevitabile un destino sbagliato. Penso che uno dei mali del Sud sia anche la rassegnazione. Il lasciare che le cose vadano come sono sempre andate anche quando sono sempre andate male, adeguandosi al male fino a divenirne inconsapevolmente parte. Nessuno dovrebbe essere costretto a migrare. Nessuno dovrebbe essere costretto a restare. La sfida non è cercare quel che non c’è, tantomeno aspettarlo come si aspetta una vincita alla lotteria; ma crearlo, cambiando quel che c’è. Il mondo ha tanto da imparare dal Sud del mondo in termini di solidarietà, di rapporto con il tempo, con la storia, con la terra. Anche per questo ho chiesto ai giovani economisti di tutto il mondo di costruire una rete di pensiero intorno ad un diverso modello di sviluppo. E sono convinto che in questo esercizio collettivo di creatività un ruolo importantissimo lo avranno i giovani del Sud del mondo. Anche i giovani di Napoli e del meridione d’ Italia».
Anche Lei saprà bene perché è noto che Napoli non le è mai stata indifferente – che la città è conosciuta come la capitale delle contraddizioni, e dove il bene e il male non stanno mai fermi. Qui convivono splendide testimonianze di solidarietà e altruismo, con i giovani sempre al centro della scena, ed efferatezze senza limiti. Va quantomeno segnalato il tentativo della malavita di imporre, oltre che un clima di violenza, anche simboli e forme tendenti a una sorta di scellerato insediamento culturale del malaffare. Talvolta anche la religione viene strumentalizzata a questo fine.
«La malavita cerca sempre di camuffarsi. Di imporre un modo di pensare distorto. Di corrompere. Di approfittare della debolezza degli Stati, di creare consenso, di infiltrarsi, di impossessarsi anche di alcuni simboli religiosi. Napoli non è l’unica città a sperimentare i dinamismi opposti del bene e del male, e la apparente contraddizione del loro manifestarsi negli stessi luoghi. Per questo serve attenzione, serve rigore. Se ci pensiamo bene la contraddizione fa parte delle nostre vite. Per questo serve una costante chiamata alla conversione. E serve perseveranza nel bene».
Napoli è certamente, anche visibilmente con la sua ricca e variopinta popolazione che affolla le sue strade e i suoi vicoli, la città dell’accoglienza. La sua gente, storicamente, è abituata a spartirsi il pane e a non chiudere la porta in faccia al forestiero. Ma le crescenti difficoltà economiche possono cambiare il verso di quest’atteggiamento naturale, ma sempre più difficile. La chiesa locale prima con il cardinale Sepe e ora con don Mimmo Battaglia, è scesa coraggiosamente in campo. Ma può bastare? E non occorrono, anche su questo versante, ulteriori passi avanti?
«Sempre la Chiesa è in cammino. E sempre c’è il rischio di scoraggiarsi di fronte alle difficoltà: la tentazione della fuga. Ma sempre dobbiamo andare avanti. E c’è una sola strada, una sola via: è la via di Gesù. È chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza paure, con la tenerezza di un amico solidale. È vero, ci sono tante difficoltà economiche, a Napoli come altrove. Ma spesso è chi ha di meno che dà di più, sono i poveri che ci insegnano la condivisione, la vicinanza, l’aiuto reciproco. La parola solidarietà invece fa paura al mondo sviluppato, tante volte incapace di credere che più dai e più ti sarà dato. Ma questa deve rimanere la nostra parola! Dentro la riscoperta di questa parola c’è la bussola per nuovi passi avanti. Per ricostruire la comunione che ci unisce e fare una comunità dell’insieme che siamo».
È ben evidente come le emergenze che continuano a piovere sulla città impediscano un’espressione piena delle sue potenzialità. Il Mediterraneo rappresenta ora la grande strada capace di segnare un futuro nuovo per l’intero territorio. A segnare questa svolta la città non lo ha dimenticato è stata proprio la sua, del tutto inedita, partecipazione in qualità di convegnista all’incontro, tre anni fa, alla Facoltà teologica di Posillipo, sulla Teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo. Napoli fu la prima tappa dopo la storica firma del fondamentale documento sulla Fratellanza universale, firmato ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyb.
«Solo riscoprendo quel che unisce, fratelli e sorelle, troveremo la strada per uscire dalla crisi che attraversiamo. Che non è cominciata oggi. E che può trovare qui, nel Mediterraneo, un bandolo della sua matassa. Più di sessanta anni fa Giorgio La Pira disse che la congiuntura storica che viviamo, lo scontro di interessi e di ideologie che scuotono l’umanità in preda a un incredibile infantilismo, restituiscono al Mediterraneo una responsabilità capitale: definire di nuovo le norme di una Misura dove l’uomo lasciato al delirio e alla smisuratezza possa riconoscersi (Intervento al Congresso Mediterraneo della Cultura, 19 febbraio 1960, ndr.). In un tempo di pensieri piccoli e ambizioni smisurate dobbiamo ritrovare la misura umana. E come ho detto a Napoli tre anni fa il Mediterraneo è matrice storica, geografica e culturale del dialogo (assieme all’accoglienza e all’ascolto) come criterio, metodo, misura di un discernimento che continua».
Quel cammino che fece tappa a Napoli è diventato, con l’Enciclica Fratelli tutti, pubblicata nel 2020, una pietra miliare nel suo pontificato. Neppure con il conflitto in Ucraina e la lunga, dolorosa e non ancora conclusa parentesi della pandemia, si può parlare di un cammino interrotto. La speranza è che alla tragedia della guerra venga posto fine al più presto.
«Il cammino non è mai interrotto. Ma servono passi concreti per mettere fine alla pazzia della guerra in Ucraina e alle tante altre guerre in atto nel mondo. Abbiamo bisogno di creatività nella costruzione della pace, non di visioni ideologiche bloccate. C’è bisogno di soluzioni globali, di gettare le basi di un dialogo sempre più allargato, per tornare a riunirsi in conferenze internazionali per la pace, dove sia centrale il tema del disarmo. Dobbiamo guardare alle generazioni che verranno. I fondi che continuano a essere destinati agli armamenti dovrebbero essere convertiti allo sviluppo, alla salute e alla nutrizione, all’istruzione, alla conversione ecologica».
Su un orizzonte più interno, per restare in Italia, di cui lei è Primate, si avvicina sempre più un importante appuntamento elettorale. In molti hanno commentato il silenzio della Chiesa come una forma non tanto di equidistanza, ma di vera e propria distanza dalla politica. È questa l’interpretazione giusta?
«No, perché per la Chiesa la Politica è la più alta forma di carità. La Chiesa non è distante dalla politica. È distante da una politica parolaia intesa solo come propaganda, o gioco di potere. È vicina invece ai problemi della gente. E pensa che il compito della politica sia lavorare per trovare insieme soluzione a questi problemi. Per la Chiesa la politica è anzitutto arte dell’incontro, è un servizio al bene comune, alla dignità di ogni persona, alla vita di ogni persona. La Chiesa ha detto e ripete quali sono le cose che contano. Le ho appena dette anche io. Questo non è silenzio».
E infine il suo personale rapporto con Napoli. Quanto Le ricorda la sua Buenos Aires, metropoli complesse, stratificate, dove convivono dolore e sofferenza con la gioia di vivere, la bellezza, la solidarietà, gli slanci? Due città, potremmo dire, col numero 10 sulle spalle, come la camiseta del più famoso di tutti, l’argentino-napoletano Diego Maradona.
«Buenos Aires è la città in cui sono nato. Conosco la sua bellezza e i suoi problemi. È vero che Napoli può ricordare qualcosa di lei. Ma sono città diverse. È vero anche che l’estro di Maradona può rappresentare in qualche modo l’estro collettivo di queste due città del Sud. La creatività. Il saper guardare oltre. L’importante è sempre che l’estro non sia mai fine a se stesso, ma sia sempre rivolto a un buon fine».
C’è qualcosa di personale che La attrae maggiormente di Napoli e del Mezzogiorno, realtà che hanno peraltro un rapporto con la religione così profondo e sentito? Avverte una affinità, una empatia umana e spirituale con le persone di questi luoghi?
«L’allegria. Il pensare positivo. La resilienza. La generosità. Sono queste le doti di Napoli che ammiro di più. Insieme alla capacità di vedere davvero i poveri, di guardarli negli occhi e di non restare indifferenti. Penso che dai napoletani ci sono tante cose da imparare».
Fonte: Il Mattino