De Napoli a Il Mattino: «Diego e una squadra dal cuore immenso»

Nando De Napoli era per tutti Rambo. In realtà lo è ancora adesso. Tale e quale. Basta chiedere ai ragazzini del settore giovanile dell’Avellino con cui ogni giorno si imbatte. «La vera fatica non è scovare talenti ma fargli capire che anche uno come Maradona, che era Maradona, era uno che rispettava tutto e tutti. Per certi versi anche se stesso». Il 1990 è stato un anno straordinario per il centrocampista di Chiusano. Il secondo scudetto ma anche le notti magiche con l’Italia di Vicini.
De Napoli, gli scudetti non si vincono solo con Maradona, Careca, Alemao… «È così, lo spiego ai giovani calciatori. Ognuno deve sapere quello che deve fare in campo. E lo deve fare sempre dando il massimo. Io sapevo che se non mi allenavo tutti i giorni al 100 per cento, non sarei mai potuto essere di aiuto a Maradona, il più grande di tutti, con le mie corse e le mie ricorse. C’ero io a proteggergli le spalle. E con me Fusi, Crippa. E mentalmente ero sempre proiettato a questo. Oggi, invece, pensano che tutto sia semplice: so giocare benino e basta e avanza. Macché. Ci vuole impegno, capire la disciplina, comportarsi bene fuori dal campo».
Estate 1989. Maradona non arriva. «La società fu chiara: non vi impicciate, non chiamate, non fate dichiarazioni. Ci dissero che avrebbero risolto loro con Diego e che alla fine sarebbe arrivato. E così andò a finire. Bigon pure, che era appena arrivato, capì la situazione: Pensate a vincere, che siete forti anche senza di lui. E infatti in attesa di Diego vincemmo le prime quattro gare e gettammo in quelle settimane le basi dello scudetto-bis».
Lei andò poi al Milan. Le hanno mai rimproverato la monetina di Alemao? «Van Basten certe cose non me le ha mai dette. Ho letto che pensa che commettemmo un furto, che il nostro fu uno scippo. Ma pure a fare i calcoli commettono degli errori: perché anche senza la vittoria a tavolino di Bergamo, noi avremmo chiuso avanti. Mica sono stato io a perdere la testa a Verona mentre noi trionfammo a Bologna? Certe cose si dimenticano troppo in fretta».
Pareggio a Lecce e sconfitta con la Sampdoria in sette giorni: avete avuto paura di una beffa come nel 1988? «Sì, infatti prendemmo una decisione. In realtà, come sempre fu Maradona ha prendere la situazione in mano: decidemmo di vederci anche dopo l’allenamento, chiamavamo il proprietario del Poeta, a Posillipo, e lui chiudeva il locale per noi. Anche perché il Napoli, a Napoli, era dietro per importanza solo a San Gennaro. Ci blindavamo».
Le cene per lo scudetto? «Erano momenti in cui ci guardavamo negli occhi. Lo scudetto perso con il Milan due anni prima bruciava ancora. Ne avevamo sentite anche noi di cotte e di crude, la verità è che loro arrivarono al rush finale più in forma di noi. E quindi quella era la lezione che avevamo imparato: dovevamo stringere i denti. E così la nostra risalita cominciò con un 3-1 alla Juventus. Non ci fermammo più. Vincemmo le ultime cinque e per il Milan divenimmo irraggiungibili. E vendicammo lo scudetto perso nel 1988».
Perché il ciclo si chiuse con quel titolo? «Ci regalammo ancora una Supercoppa italiana ma è vero che alla fine il cerchio si chiuse con quella vittoria. Avevamo vinto la Coppa Uefa, la Coppa Italia ma nessuno pensava che quello sarebbe stato l’ultimo scudetto. La società investiva, avevamo giocatori fortissimi come Zola che aspettava solo il momento di esplodere. Ma quella era una serie A spaziale: poteva vincere chiunque, mica solo l’Inter o il Milan o la Juventus come avviene adesso. E infatti nel 91 vinse la Sampdoria di Boskov».
Per lei e per l’Italia l’estate del 1990 è quella delle notti magiche. «Uno pensa sempre alla delusione di Maradona per quella finale persa con la Germania. Ma lui in fondo, Canniggia a parte, non aveva una grande Argentina a sostenerlo. Il vero rimpianto è il mio, quello della nostra Nazionale. Lui fu abile prima di quella semifinale al San Paolo, da scugnizzo vero, ad andare a toccare le corde dei sentimenti. Vi maltrattano sempre, ora si ricordano che siete italiani. Qualche tifoso, non tutti, si convinse che aveva ragione. Ma non ce l’avrò mai con lui. Ho vissuto gli anni più felici della mia carriera».
Fonte: Il Mattino
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