Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “L’ultima volta”

Lo vedemmo per l’ultima volta a braccia alzate. Il 17 a Napoli porta disgrazia, si sa, e quella domenica 17 Marzo del 1991 non sfuggì alla regola partenopea. Diego uscì dal campo a braccia sollevate. Salutò i settantamila, i soliti, con il sorriso sulle labbra. I riccioli bagnati appena. Avevamo battuto il Bari , in uno scontro impossibile da immaginare per un Napoli fresco campione d’Italia per la seconda volta, ad inizio campionato. Gli azzurri con venticinque punti al decimo posto, il Bari di Salvemini due punti più sotto appena. Uno spareggio da incubo per le posizioni di rincalzo. C’era voluto un gol di Zola, dopo un rigore sbagliato da Joao Pedro, anzi, parato da Galli. Ed il cross per la capocciata vincente del piccolo sardo, l’ultimo assist della storia del pibe al San Paolo, manco a dirlo lo aveva confezionato lui, dopo una partita giocata corricchiando per il terreno di gioco. Lo vedemmo imboccare lo spogliatoio, come sempre da sette anni a quella parte. La fascia da capitano a metà tra il bordo della maglia ed il braccio. Nulla lasciava presagire l’incubo. Ancora non sapevamo che sarebbe stata la sua ultima volta. Stava andando al controllo antidoping. Quello che gli risultò fatale. Ci andò da solo. Quel giorno il suo fido accompagnatore quello che poi si disse truccava i doping con pompette di urina “sicure” passate a Diego nel momento topico del controllo, non c’ era. Si disse che lo incastrarono per quel motivo. Maradona stava andando via, uscendo dal prato di Fuorigrotta, ed il suo popolo gli tributava un omaggio velato di rancore. Non lo avrebbe mai più rivisto. Non si era allenato tutta la settimana. Venti di fronda correvano tra lui e Ferlaino. Bernard Tapie, patron del Marsiglia, gli faceva una corte spietata. Diego voleva andare via. Il suo popolo si domandava perché. Avesse saputo che quella era la sua ultima partita nel tempio di Fuorigrotta, sarebbe stato diverso. Forse. No, sicuramente. Sapemmo una settimana esatta dopo. Sampdoria-Napoli. Un 4 a 1 mortificante, l’ennesima delusione di una stagione impossibile da immaginare, dopo la vittoria in Supercoppa per 5 a 1 contro la Juventus, in una notte da delirio nella quale il Napoli era parso ancora inarrestabile. Sapemmo che Lui non sarebbe più apparso sulla scaletta che sale dal ventre del San Paolo, quella che ci fa sollevare uno dietro l’altro, come una magnifica onda vestita di azzurro nel momento in cui ogni emozione si solidifica, granitica, nella sola trasfigurazione di un istante eterno. Tramandata di padre in figlio: il Napoli in campo. Non lo avremmo mai più rivisto, uscire sul prato di Fuorigrotta, il viso concentrato, le gambe nervosamente sciolte in un movimento fluido, la mascella appena contratta. Non lo sapevamo ancora, quel pomeriggio, che ogni cosa era compiuta. Senza addii, isterismi, sciarpe gettate sul prato verde, giri di campo, e lacrime. Quelle sarebbero venute dopo, quando, sbigottiti, avremmo rivisto il Napoli entrare in campo senza Lui in testa. Così, improvvisamente . Non lo sapevamo. Non immaginavamo, in quei giorni, di poter sopravvivere al suo addio. Invece successe. E, dopo quell’addio, nessun altra separazione calcistica, per quanto dolorosa, potrà mai farci male. Nessuna. Mai.

Stefano Iaconis

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