Ai microfoni de Il Mattino Minà:
«Sono nato a Torino ma in due città mi sento davvero a casa: una è Roma, l’altra è questa. In verità ce n’è pure una terza per la quale provo la stessa passione folle e istintiva».
Gianni Minà racconta Napoli, la definisce il luogo del cuore, e ricorda con orgoglio quando ne diventò cittadino onorario.
Anno 2019.«Fu un momento assai commovente. In quell’occasione, più del solito, sentii fisicamente l’abbraccio e l’amore che i napoletani avevano per me».
Bella emozione.«Grande emozione. Anche se ricordo che feci molta fatica. L’anno prima avevo avuto un infarto, mi mise ko in maniera brutale. In ogni caso quella scappata a Napoli per la cittadinanza fu corroborante».
Ha detto che sono tre le città dove si sente a casa: Roma, Napoli e la terza«L’Avana, Cuba. Così lontana e pure così carica di similitudini con tutto ciò che vive all’ombra del Vesuvio».
Che cosa la appassiona di più?«Gli odori, i colori, la gente, tra luci e ombre sempre e comunque vera anche nei suoi atteggiamenti più brutali. Napoli è una città di porto, purtroppo fatta a brandelli dalla storia e dalla politica, eppure vissuta da un popolo che ha alle spalle cultura e antiche tradizioni».
Orgoglio partenopeo.«Dico sempre che non è una città: Napoli è uno stato a sé. Parlare con chi ci vive poi è un’esperienza a parte».
In che senso?«È come se ti restasse sempre qualcosa di prezioso addosso, anche dopo confronti accesi e scontri durissimi. Fosse pure un modo di dire, una consuetudine, ricordi di una saggezza popolare costruita sulla fame e sulle difficoltà».
Tra i suoi amici più cari c’era Massimo Troisi.«Una di quelle persone rare, sagaci, con un acume politico che trasformava in battute rarefatte e efficaci. Mi veniva a trovare di notte, a casa, parlavamo di tutto. E poi si rideva, si rideva sempre».
Un rapporto di affetto sincero.«Avevamo costruito una bella amicizia, ci volevamo bene. Insieme poi realizzammo un pezzo di televisione irripetibile. Diciannove minuti esilaranti entrati di diritto nella storia della tv italiana».
Parla dello storico monologo nella puntata del programma «Alta Classe» dedicata a Pino Daniele?«Sì, quello. Registravamo a Viareggio, sotto il tendone, Massimo doveva fare una ospitata, come si dice in gergo, nella trasmissione dedicata a Pino. Quella sera avemmo molti problemi tecnici, alla fine registrammo alle due di notte: in dieci minuti Troisi fu capace di inventare l’antologia comica e ironica della televisione».
In che modo?«Gli avevamo chiesto uno sketch su Pino Daniele, che era il festeggiato. In realtà cominciò a parlare di me, della mia agenda telefonica, infilando battute una dietro l’altra. Ridevo come un matto senza riuscire a dire nulla. Solo dopo ci rendemmo conto che era nato un pezzo di televisione straordinario. La sua scomparsa, insieme con quella di Pietro Mennea, mi spezzò il cuore».
Da Troisi a Maradona il passo è breve.«Indimenticabile la sera in cui, nell’Auditorium della Rai, organizzai e presentai la Festa per uno scudetto con tutti i rappresentanti della cultura musicale partenopea, la squadra del Napoli e ovviamente Maradona in testa: più che un programma tv fu una catarsi collettiva».
Insomma, un legame profondo con questa città: dal punto di vista professionale e affettivo.«Tra i miei più cari amici c’è anche Edoardo Bennato. Lo conosco dagli anni 80 quando, ancor prima di giganti come Bob Marley e altre leggende della musica moderna, riempì lo stadio di San Siro, sessantamila persone, con un concerto memorabile che Rai Due mi chiese di riassumere in due programmi».
Quali?«I titoli erano E invece si e E invece no. Si ispiravano entrambi a un disco di Edoardo uscito nell’81. Di lui mi piacque subito la fede incrollabile nel rock and roll tradizionale che aveva respirato, come tanti colleghi napoletani, nella base Nato. Suoni e ritmi che poi riproponeva nel cortile della Casa popolare di Bagnoli».
Altro grande artista, Bennato.«Uno di quelli che continua a ripetere che la musica popolare non solo non è morta ma potrebbe ancora svolgere la sua funzione egregiamente».
Parliamo di cibo, ovviamente napoletano.«Tutti pensano che chissà quanto mangio, in realtà sono un vegetariano con continue irruzioni nel mondo dei formaggi, italiani e stranieri senza alcun pregiudizio. Di Napoli invece mi piace tanto la pastiera».
Dove la compra?«Me la porta spesso un mio giovane amico, Bruno Martirani. L’ho conosciuto qualche anno fa in occasione di una manifestazione allo Scugnizzo liberato, il laboratorio di mutuo soccorso a salita Pontecorvo. Bruno ormai fa parte del mio gruppo di giovani collaboratori».
I ragazzi di Minà.«Qualche giorno fa ha messo in piedi Minà’s rewind, un’iniziativa a cui tengo molto».
Di che cosa si tratta?«Lo definisco un progetto romantico e didattico allo stesso tempo: consiste nella digitalizzazione del mio immenso archivio di materiali inediti messo insieme in oltre 60 anni di carriera. Per farlo ci siamo rivolti al pubblico che mi ha sempre seguito con affetto avviando una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso, che ha raccolto, solo in qualche giorno, quasi 7mila euro».
Un patrimonio giornalistico da salvaguardare.«Non ho mai buttato nulla, ho conservato tutto forse in maniera esagerata, ma la mia certezza è sempre stata che con quelle immagini avremmo capito di più e meglio la realtà in cui abbiamo vissuto e stiamo vivendo».
Intervista a cura di Maria Chiara Aulisio (Il Mattin