Il giorno in cui mise la testa fuori dalla finestra del condominio dove alloggiavano più o meno una mezza dozzina di sorelle, Luciano Spalletti alzò la testa verso il cielo e s’accorse che ormai non ci sarebbe stato più motivo per invocare la scaramanzia: Milan 67, Inter e Napoli 66, Juventus 62. «Ci giochiamo tutti lo scudetto». A 630′ minuti dalla fine non c’era alcun motivo che giustificasse prudenza o – peggio ancora – ipocrisia: la verità, in quel momento, era inchiodata tra l’«attico» rossonero e il bilocale del secondo piano, distanti un punto, un colpo di vento o di tosse, un capogiro. È andata com’è scritto negli archivi, ormai già pieni di polvere, di rimpianti e (persino) di veleno, ma ciò che resta di questi nove mesi è anche il passato, quell’inizio travolgente – 32 punti nelle prime dodici partite, dieci vittorie e due pareggi – che adesso si combina e si miscela con questo senso di smarrimento, il tratto surreale d’una vicenda a tratti quasi kafkiana.
CHI CI METTE LA FACCIA. Il 10 aprile, all’alba, Luciano Spalletti era legittimamente dentro ad un sogno che gli apparteneva per intero: non avrebbe potuto fingere di ritrovarsi ai margini, men che meno ignorare la portata di un’emozione capace di trascinare 50 mila spettatori al «Maradona» per la sfida alla Fiorentina, e vestendosi da «normal one» fece la più scontata ed inevitabile delle osservazioni. Non è indispensabile stupire per accalappiare qualche like mediatico, semmai è giusto restare se stesso. «Siamo noi quattro che ce lo contendiamo». Spalletti disse ciò che non poteva essere taciuto, niente di più della radiografia d’una oggettiva dimensione, della quale era consapevole chiunque, compreso il Napoli con quei suoi presunti (o autentici) limiti caratteriali, con quella insostenibile pesantezza dell’essere chiamato a confrontarsi con i demoni o la paura di volare o le suggestioni. «Sono stato io a parlare di scudetto, per tentare di alzare il livello di determinazione e per poter poi andare oltre l’ostacolo». E anche al di là di qualsiasi ottimistica aspettativa di agosto 2021, quando il suo Napoli è (ri)nato dalle ceneri di due fallimenti, è scivolato fuori da quella cappa velenosa, ha affrontato l’emergenza economica rifugiandosi in ciò che aveva, evitando investimenti sul mercato, «giocherellando» con i prestiti ottenuti attraverso scelte coraggiose, ricostruendosi dentro e dandosi un tono: «Questo Napoli ha una base per migliorare». Per «meritarsi di più», insomma, come invocato da chi si è sentito (umanamente) avvampare per aver bruciato un’occasione: ma questa è un’altra verità, che può convivere con la consapevolezza che un terzo posto non possa rappresentare essere un fallimento, semmai potrà fungere da volano in un «progetto» ch’esista e gli appartenga, persino al di là di ciò ch’è riportato nel contratto, una nuova stagione ancora almeno, aspettando di capire cosa farne dell’opzione.
METTI UNA CENA. Per ricominciare, domani sera, la cena da terapeutica diventerà
Fonte: A. Giordano (Cds)