Daniel Bertoni lo aveva previsto: “Era chiaro che il Napoli potesse competere”

A Napoli lo volle Diego, ma anche lui scelse il Napoli. Preferì fare la spalla al Pibe de oro piuttosto che la prima stella al Verona. Domenica, Ricardo Daniel Bertoni vivrà il suo derby italiano. «È una finale. Una si gioca lo scudetto, i viola il ritorno in Europa League che vale come uno scudetto. Ma la squadra che ha vinto con l’Atalanta ha mostrato di essere consapevole della propria forza»

Bertoni, lei a inizio anno aveva previsto tutto. «Vero, quando ho visto i passi falsi in Europa del Napoli, sottolineavo che era inutile disperarsi perché la squadra non mi sembrava in grado di essere competitiva sui due fronti. Bisognava scegliere l’obiettivo. Ed era giusto che Spalletti pensasse solo al campionato. Perché era chiaro fin dal cammino iniziale che questo Napoli poteva vincere lo scudetto».

Ora ne è ancora più convinto? «Bergamo è sempre stato un campo per tradizione difficile. E come ha vinto il Napoli? Con autorità, personalità. E quei tre punti sono un passo avanti importante, soprattutto per prendere coscienza della propria forza».

Italiano contro Spalletti. Che idea si è fatto? «Luciano veniva a fare il tifo per la mia Fiorentina in Curva Fiesole. Me lo confidò quando era all’Empoli e ci trovammo in un programma televisivo. Ora sono io che faccio il tifo per lui anche se domenica si sfidano i miei due amori italiani ed è difficile schierarmi. Il 4-3-3 dei viola mi sembra esaltarsi quando affronta squadre come il Napoli e ho visto come gli azzurri soffrono quando giocano in casa».

Che differenza tra le due città? «Negli anni Ottanta non ne vedevo molte. Io venivo da Buenos Aires, prima di approdare in Italia avevo vissuto a Siviglia. Per certi versi dovevo avere maggiori affinità con Napoli, dove pure Sivori diceva che era stato una meraviglia. Ma considero Firenze e Napoli simili per passione, calore, competenza delle due tifoserie. Poi i locali dove andavo a mangiare sono ancora tra i miei ricordi più cari: la pizza di Ciro a Mergellina, la Sacrestia, e a Firenze i Tredici Covi e da Tullio dove il proprietario Paolo è amico mio e di Antognoni».

È rimasto sorpreso dall’eliminazione dell’Italia? «Sinceramente? Non tanto. Le uscite già nel turno eliminatorio nel 2010 e nel 2014 sono state sottovalutate, il segnale che già qualcosa si era rotto rispetto a quando nel 2006 la Coppa del mondo era stata vinta. C’è una cosa che non mando giù: affidarsi a quelli con doppia nazionalità, gli oriundi. Molto meglio un italiano vero che per la maglia si spacca il cuore…»

Vlahovic e il suo addio alla Fiorentina? «Sono soldi importanti per la società, come si fa a dire di no a certe cifre? Certo, sarebbe stata una bella sfida con Osimhen che è una punta vera vera».

Ecco, nella sfida dei bomber chi è la favorita per lo scudetto? «Osimhen gioca domenica? È troppo spesso assente, per un motivo o un altro. Questo è il suo punto debole. Ovvio, il mio preferito resta sempre Lautaro Martinez: con il Verona è squalificato, ma è sempre decisivo. Lo volevo portare alla Fiorentina, ne parlai con Pantaleo Corvino qualche anno fa quando era ancora nel Racing e cominciava a giocare nell’Under 20 dell’Argentina. Nel Milan il punto di forza non sono tanto i gol che fanno ma quelli che non prendono. Una degna difesa all’italiana».

Cosa deve temere il Napoli domenica? «Quello della Fiorentina è un 4-3-3 coraggioso, dove in tanti possono fare gol. A Italiano piace attaccare. E in panchina si agita tanto e sembra un sudamericano in certi momenti».

La sorprende che una maglia di Maradona vada all’asta per quattro milioni di sterline? «Per nulla. Maradona è riuscito ad essere l’Argentina, la sua anima fredda e tragica e quella calda. Maradona era il compagno che era pronto a prendersi la squadra sulle spalle nei momenti di difficoltà, era un leader che era cresciuto venendo a vedere le partite del mio Independiente dove c’eravamo io, El Bocha Bochini, El Chivo Pavoni».

La ricorda la Mano de Dios del 1986? «A quel Mondiale non andai. Perché Bilardo e Grondona preferirono cancellare la Seleccion di Menotti. Maradona a parte. Quello in Messico è stato il trionfo della patria, la riscossa sugli inglesi. Ma quella mano io l’avevo già vista in azione pochi mesi prima, a Udine: io colpii la traversa e lui si gettò col pugno sulla sfera e fece gol. E anche quando lo vidi in diretta a Città del Messico dissi subito: Ecco, lo ha rifatto».

P. Taormina (Il Mattino)

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