Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Al centodiciannovesimo, Renica”

Successe il finimondo. Lo stadio tremò dalle sua fondamenta. Fu come se il mondo fosse esploso. Persi di vista mio padre, che fino al momento prima era accanto a me. Mi ritrovai tre file più in basso, e per quel breve istante che mi fu consentito dal delirio che ondeggiava, scorsi il suo profilo. Poi sparì. Ci reincontrammo solo molto dopo. Ansanti, ubriachi di felicità. E ci abbracciammo. Un abbraccio lunghissimo, silenzioso, nel quale c’erano milioni di parole attese. Accadde l’apocalisse. Un uomo si avvinghiò al mio collo, le vene pulsanti, la bocca che emetteva un suono disarticolato. Mentre intorno lo stadio ribolliva, schiumava, spumeggiava, traboccava. Impazziva. Sul prato Renica correva. Ciascuno correva, da qualche parte, ma lui era un ossesso. Aveva appena realizzato il gol del tre a zero contro la Juventus. Quarti di finale di Coppa Uefa. Al centodiciannovesimo di una partita infinita. Incredibilmente infinita. E che non dimenticammo mai più. Accadde una sera di inizio primavera. Quella coppa, poi, la sollevammo al cielo. In un’altra notte, quando quella primavera stava per lasciare il posto all’estate. Trentatré anni fa. Ieri, Il cross per Renica lo aveva fornito Careca, dopo una piroetta sulla fascia nell’ ultimo guizzo di una partita epica. In realtà non fu un cross. Fu una palla gettata in area, con il sussulto della disperazione. Renica si era trovato a centro area, e, di testa, aveva battuto Tacconi. In un appuntamento con il destino che gli avrebbe impresso le stimmate dell’amore eterno. Vidi per un momento Renica che correva, quelle lunghe braccia aperte a croce, le leve a martellare il terreno di gioco, e sullo sfondo, a fare da cornice, il delirio. La fine di ogni ragione conosciuta. Mi sedetti. Davanti agli occhi farfalle. Il cuore che frullava nel petto come un uccello che cerca la via di fuga tra le sbarre di una gabbia. Volevo urlare, esultare, volevo guardare, bere dalla coppa di quel momento che sarebbe rimasto per sempre. Invece piansi. E vidi molti altri con gli occhi lucidi, intorno a me. Dopo, molto dopo, vidi che Renica era stato placcato dal povero Giuliani. Questo lo vidi a casa, ore dopo, quando l’ebbrezza di quella notte lasciò il posto ad una stanchezza felice. Lo vidi in tv, una, due, cento, mille volte ancora. Mi addormentai con negli occhi quella scena. Renica che correva, Giuliani che lo placcava. Riportando indietro il fotogramma ogni volta. Renica ha ancora le braccia allargate verso il cielo notturno. Ed è ancora il diciannovesimo minuto di quella notte di marzo. Lo sarà per sempre.

di Stefano Iaconis

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