Ancelotti, da “bollito” a grande rimpianto per Napoli

C’è un solo modo per essere sicuri di restare sulla panchina del Real Madrid: vincere le partite. È una legge che Carlo Ancelotti conosce bene. Poi se batti il nemico politico di Florentino Perez (Al Khelaifi sodale di Ceferin contro la Superlega), e lo fai il giorno dopo il suo compleanno, è ancora meglio. Da mercoledì sera Carletto è il re di Madrid. «Almeno fino a lunedì», ha confidato ai suoi. Si gioca Mallorca-Real e alla Casa Blanca è ammesso sempre un unico risultato.
Intanto si gode le celebrazioni. «È stata la magia del Bernabeu. Sull’1-1 è cambiato tutto. Qui a Madrid lo chiamano lo spirito di Juanito». L’ala che faceva coppia con Santillana tra gli anni Settanta e Ottanta (uno dei cori è ancora oggi «Juanito la prepara y Santillana mete gol»). Dopo una partita d’andata a Milano, Juanito vide gli interisti festeggiare eccessivamente e disse: «90 minuti en El Bernabeu sono molto longo». L’Inter lo scoprì due volte. Mercoledì lo ha scoperto pure Pochettino.
Anche se va scissa la leggenda dalla realtà. È vero, la remuntada è il Dna del Madrid come ha scritto Pedrerol il signor Chiringuito trasmissione tv che lì è un’autorità. Ma i fatti dicono che negli anni Duemila soltanto due volte il Real era riuscito a rimontare in Champions dopo una sconfitta fuori casa: nel 2002 contro il Bayern e nel 2016 contro il Wolfsburg.
Carlo ha il passo lungo, la fretta non sa cosa sia. Altrimenti non avrebbe acciuffato la Décima nei minuti di recupero. Ha insegnato al Real a soffrire, a essere meno superbo. E a fare più cose. Un po’ come il maestro di karate kid. «Togli la cera, metti la cera». Ora non lo sai, ma un giorno ti servirà.
Se esistesse una definizione di ancelottismo sarebbe “il contrario dell’integralismo”. Non è un caso che la partita sia svoltata con un suicidio del Psg su quella costruzione da dietro che sta diventando un feticcio degli allenatori della nouvelle vague. Il Real, invece, ha segnato con tre palloni recuperati. E due contropiede: termine di cui Ancelotti non si vergogna affatto. Pur avendo in squadra calciatori che col pallone, diciamo, ci sanno fare discretamente. Il pallone di Modric a Benzema per il gol del 2-1, è poesia.
Lo scorso anno il Madrid ha chiuso a zero tituli. Un’onta per la casa. Florentino ha richiamato Carlo perché serviva un capitano di lungo corso, in grado di navigare ogni mare senza farsi prendere dall’agitazione. Ha già portato a casa la Supercoppa. In Liga è primo con otto punti sul Siviglia. Il quotidiano Diario As scrive che «sta facendo magie con una rosa di transizione e che si conferma il tecnico perfetto per comandare questo progetto che sta per arricchirsi di Mbappé e forse di Haaland. Non ci sono più “ma” da mettere. L’italiano è tornato per questo, per continuare ad emozionare col calcio».
Madrid lo celebra. In Italia più di una persona si chiede come sia stato possibile che il Napoli lo abbia liquidato come se facesse un altro mestiere. L’altra sera, subito dopo il 3-1 sul Psg, Paolo Bertolucci, grande tennista e milanista doc, ha sintetizzato ironicamente il concetto su Twitter: «A Napoli un tifoso azzurro mi disse dopo l’esonero di Ancelotti: “È ora che qualcuno abbia il coraggio di dire che è ormai bollito”». Quante gliene hanno dette. Bollito, pensionato, in cerca di una sistemazione per il figlio. Ma in tanti ancora lo rimpiangono. De Laurentiis, che commise l’errore più grave della sua presidenza, arrivò a dire: «Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli, il calcio a Napoli è un’altra cosa». Frase che riletta oggi suona come una condanna tombale per quella città. Ancelotti deve accontentarsi di essere il re di Madrid. Non si può avere tutto dalla vita.
Fonte: Massimiliano Gallo CdS
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