Della partita di Bergamo, quella della moneta da 100 lire che colpì alla testa Alemao e fece infuriare il Milan dopo i 2 punti a tavolino assegnati dalla giustizia sportiva al Napoli, ricorda un panino con la mortadella. «Lo nascosi sotto l’impermeabile per portarlo a Ricardo nell’ospedale di Bergamo: aspettando l’esito degli accertamenti il ragazzo doveva pure mangiare». Aldo Trifuoggi visse da team manager azzurro il secondo scudetto. Quello del 90, quello di polemiche che ex rossoneri – da Sacchi a Van Basten – non smettono di rinfocolare dopo oltre trent’anni. «Ma dimenticano Bologna».
Perché non a caso? «Perché all’epoca il settore arbitrale era spaccato in due parti e Lanese era dall’altra… A Verona, penultima di campionato, venne designato per fortuna Lo Bello. Che non aiutò il Napoli, sia chiaro: punì con tre espulsi la sceneggiata che il Milan fece in campo».
Quella domenica il Milan perse la partita e le residue chance di vincere lo scudetto mentre il Napoli stravinse a Bologna. «Seduto in panchina accanto a Bigon, avevo un solo compito: ascoltare alla radiolina azzurra la cronaca di Verona-Milan e riferire ad Albertino e alla squadra. Gli aggiornamenti li davo a Ferrara».
Come andò quella domenica a Bergamo? «Alemao fu colpito, io scattai dalla panchina e venni fermato dall’arbitro Agnolin. Tranquillo, ho visto tutto. Il regolamento, bello o brutto che fosse, prevedeva in quel caso l’assegnazione di due punti a tavolino. E finimmo con un vantaggio di due lunghezze, non una, sul Milan».
Le polemiche furono durissime. «Sì. Ma il giorno prima dell’ultima partita di campionato arrivò alle tre del pomeriggio una telefonata nella foresteria del Centro Paradiso, il nostro ritiro. Era Berlusconi, il presidente del Milan. Chiese di parlare con Maradona e io rintracciai Diego in camera. Pochi minuti, con Berlusconi che fece i complimenti a Maradona per lo scudetto che Napoli e il Napoli avrebbero festeggiato la domenica. Fu una telefonata che sorprese Ferlaino, chissà cosa immaginava potesse aver detto il Cavaliere al nostro capitano…».
Bigon, arrivato da Cesena, si era trovato nello spogliatoio Maradona, non più gestibile a causa della cocaina. «Anzitutto, trovò un gruppo coeso, composto da veri professionisti. Tutti ottimi calciatori e nessuno si lamentava se doveva andare in panchina. Capitava a un centrocampista della Nazionale come Crippa o Fusi, o a un difensore di qualità come Corradini. Il merito era anche dei dirigenti che erano a capo della squadra, Moggi e Perinetti. Poi c’era Diego, amatissimo dai compagni e da tutti coloro che vivevano la quotidianità di Soccavo. Esisteva, però, un confine che non andava superato nel rapporto con lui».
Quale? «Non voleva domanda sulla sua vita, gli sembravano delle intromissioni. Vi fu un rapporto leale tra noi due. Lo accompagnai a vedere un paio di case perché voleva lasciare l’appartamento di via Scipione Capece per uno più ampio, o per una villa».
Evidentemente Diego non immaginava di dover andare via pochi mesi dopo la festa del secondo scudetto, squalificato per doping. «Dopo il trionfo di aprile, capimmo che quel ciclo non poteva durare ancora a lungo. Per fortuna eravamo riusciti a godercelo».
F. De Luca (Il Mattino)