O. Bianchi al CdS: «E’ un Napoli maturo come la città. Vedo le gare ma dopo due minuti faccio una cosa!»  

Lunga ed interessante intervista di Ivan Zazzaroni ad Ottavio Bianchi

«Il 6 marzo 2001 viene nominato responsabile dell’area tecnica della Fiorentina. Tornerà in panchina sette mesi dopo. Il 5 aprile 2002 assume la carica di presidente, succedendo al dimissionario Ugo Poggi, fino al termine del campionato: nell’agosto del 2002 la Fiorentina fallisce». Si chiude così la nota biografica di wikipedia; la ricerca rapida, Ottavio Bianchi: ci ricorda l’ultima panchina, l’ultimo suo domicilio tecnico conosciuto.

Sono già passati vent’anni.

«Venti esatti? Boh, non lo so»

riecco il naturale e impagabile distacco, una delle sue inevitabili prese di distanza dalle cose terrene (di calcio). L’Ottavio esterno al passato, sempre in equilibrio tra differenza, indifferenza e umorismo. «Dovrei fare mente locale. Sono appena tornato a casa dal supermarket, se lo sa mia figlia… Ma sì, diciamo che fu l’ultima. Una panchina per modo di dire».  

 

 Come per modo di dire…  «Ci sono momenti e situazioni che ho bypassato. A Firenze mi chiesero di dare una mano e feci il possibile per aiutarli, purtroppo mancarono le condizioni per lavorare. Comunque ti ringrazio di avermi ricordato che sono passati vent’anni. Hai fatto come al solito la carognetta tirandomi la prima stilettata».

Un eccesso di confidenza. Adesso mi dirai che non vedi più il calcio, le partite.  «E qui ti sbagli. Le vedo, molto spesso però senza arrivare fino in fondo. Dopo due minuti tolgo l’audio».


Ecco, ci risiamo.  «Il canto e il controcanto proprio non mi interessano, non mi prendono. I tecnicismi dialettici li trovo irritanti. Sono un cultore della semplificazione, il calcio è semplicità e anche il racconto della partita deve esserlo. Semplice e accessibile. Ma il problema sono io, probabilmente, non chi fa quel lavoro mettendocela tutta. Una volta ho letto un pensiero che mi è molto piaciuto, diceva più o meno così: complicare è facile, semplificare difficile. Per complicare basta aggiungere tutto quello che si vuole. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare… Adesso una domanda te la faccio io: qual è la differenza tra il fuoriclasse e il buon giocatore?».  

Eh, no: rispettiamo ruoli e compiti.  «Il fuoriclasse semplifica tutto, il tiro a effetto, le grandi giocate sono le risorse ultime, quelle alle quali ricorre nei momenti di difficoltà della squadra. Per il resto passaggi semplici per i compagni, linearità. Il fuoriclasse adatta il linguaggio alle circostanze. Sa quando c’è bisogno dell’accelerazione e quando invece conviene gestire. Le grandi squadre fanno lo stesso. La grande squadra non è quella che parte a mille all’ora e finisce a mille all’ora. Ma quella che sa variare i tempi… Io ho giocato con alcuni tra i più grandi, ho marcato Pelé. E Pelé aveva lo scatto da 0 a 30, e poi lo stop improvviso, una volta partito l’avevi perso per sempre. La semplicità dei grandi, ti dicevo. Di Stefano poteva giocare in tutte le posizioni perché tutto gli riusciva semplice, naturale. Dopo Di Stefano metto Cruijff».  

Anche Nedved era capace di ricoprire bene più ruoli: l’abbiamo visto terzino, mediano, interno, esterno d‘attacco.  «Ottimo giocatore, ma io sto parlando del top dei top».  

La semplicità è premiante anche in panchina?  «Happel, Kovacs, autentici miti e punti di riferimento, investivano sul potere della semplicità. Io li ho conosciuti e incontrati, partivano dalle caratteristiche del calciatore per trovare l’alchimia di squadra. Per loro era tutto naturale, noi poco più che mediocri – al contrario – dovevamo inventare. Io sono uno studioso del calcio, i sacri testi dicono che il fuoriclasse si esalta nel collettivo e il collettivo lo esalta il fuoriclasse».

Facile: hai allenato uno che vinceva da solo.  «Non a caso Diego resta il più grande di sempre e un unicum».  

Oggi chi è un fuoriclasse?  «Messi. Io sono attratto dai numeri 10. Tu hai sempre avuto un debole per Baggio, straordinario nonostante i guai alle ginocchia che hanno segnato la sua carriera, e come lo capisco io non lo può capire nessuno. Se Baggio è stato quello che è stato vuol dire che era bravo bravo. Tuttavia se dovessi indicare un punto di riferimento ai più giovani, l’assoluto, segnalerei Iniesta, fisico da impiegato di banca, ma con un’intelligenza calcistica, una visione e un senso del gioco inarrivabili. Come dicono gli argentini, aveva gli occhi anche sulla schiena. Mbappé è un altro molto interessante, ha uno straordinario cambio di passo, dribbling, senso del gol. Come vedi, non ho indicato calciatori della serie A». 


Posso immaginare il motivo.  
«I più forti sono in Premier, al Psg, al Bayern. Barcellona e Real hanno fatto qualche passo indietro negli ultimi due anni. Ma se pensi che il Barcellona, quarto in Spagna, è venuto a Napoli e ne ha dati quattro alla nostra migliore squadra, le conclusioni sono poco piacevoli».  

Credi davvero che il Napoli sia più forte di Inter e Milan? «In questo momento, sì. Tutte e tre hanno avuto in tempi diversi la possibilità di prendere il largo e non ci sono riuscite. Prima il Milan e il Napoli, poi l’Inter hanno subìto dei rallentamenti… La stanchezza non è l’alibi facile. Il Covid, il calendario fitto, i tempi di recupero praticamente ingestibili hanno condizionato il lavoro degli allenatori. Oggi chi ha meno impegni, chi può sfruttare l’intera settimana per preparare la partita sfrutta un vantaggio notevole sulle concorrenti impegnate nelle coppe. Faccio un esempio quasi banale, se prima ci volevano 24 ore per riprendersi da una botta, ora non bastano tre giorni, a volte sei costretto a far giocare gente in condizioni imperfette. Fortuna che ci sono i cinque cambi».

Il caso Insigne ti ha sorpreso?  «Napoli ha dimostrato di essere una città più matura e consapevole. Società e calciatore hanno fatto i rispettivi interessi. Situazioni del genere all’estero sono all’ordine del giorno». 

Qual è l’allenatore di serie A più simile a te?  «Perché gli vuoi così male?».  

Seriamente.  «Apprezzo chi ha fatto la gavetta. L’esperienza è tutto. Quando decisi di smettere di giocare mi resi conto che avevo appena capito come si stesse in campo. Mi sono ripetuto anche da allenatore. Sono proprio tonto».

Cosa pensi di Mourinho?  «Sapevo che me l’avresti chiesto».

Hai la risposta pronta?  «Ho un’ammirazione totale per Mourinho, dico sul serio. Altri, al posto suo, non sarebbero sopravvissuti alle difficoltà di gioco e classifica della Roma, lui non ha perso un grammo di considerazione, i tifosi lo venerano, nonostante Roma non sia semplice».

Ha anche dei crediti da spendere: 25 titoli, ad esempio.  «L’allenatore è come il pugile campione del mondo che ha vinto 30 incontri su trenta e tutti per ko. Se al trentunesimo prende un cazzotto e va al tappeto, per tutti è finito. L’allenatore non ha un passato, solo un presente. Pensa ad Ancelotti a Napoli».  

La tua posizione sulla Superlega?  «La facciano subito, ma escano dal sistema. L’errore non è solo da una parte. L’Uefa dovrebbe prendere una posizione chiara: vuoi fare la Superlega? Benissimo, quella è la porta, fattela da solo».  

A fine mese ci giochiamo il Mondiale.  «Dopo l’esaltazione dell’Europeo, un successo sensazionale, siamo tornati alle solite ambasce. Non possiamo temere chi non ci è superiore, se partiamo così siamo fuori ancor prima di giocare la prima». 

Fonte: Ivan Zazzaroni (CdS)

 

 

 

 

 

 

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