Alessandro Barbano (Cds): “Il coraggio  di cambiare. Ci resta il campionato, teniamocelo stretto”

L’opinione del direttore Barbano:

“Chissà se i presidenti che oggi formalizzeranno le candidature per la presidenza della Lega di serie A, dopo la rinuncia di Carlo Bonomi, abbiano constatato, assistendo ai centottanta minuti di Lazio-Porto e Napoli-Barcellona, quanto ampio e insormontabile sia il divario che divide le più forti squadre italiane di club dalle loro omologhe delle altre Leghe Top. Se abbiano fatto caso che nel secondo tempo le due mezzali del centrocampo catalano erano un diciassettenne (Gavi) e un diciannovenne (Pedri), cresciuti nel vivaio blaugrana e già più volte convocati nella nazionale spagnola. Certamente se n’è reso conto Roberto Mancini, che ha assistito alla disfatta del Napoli dalla tribuna del Maradona. Né gli sarà stato di consolazione, alla vigilia del doppio spareggio che rischia di tagliare fuori dal Mondiale l’Italia per la seconda volta di seguito, sapere di poter disporre del pur bravo Tonali, che tuttavia di anni ne ha già ventuno. 

Purtroppo le due ultime esclusioni delle squadre italiane dall’Europa non sono l’esito di una giornata negativa, ma la fotografia della fragilità atletica, dell’arrendevolezza caratteriale, dell’arretratezza strategica del calcio italiano. Che, al di là dei risultati – e quello dell’Atalanta contro l’Olympiacos non sembra fare testo -, non ha nessuna formazione in grado di imporre il suo gioco in un contesto europeo d’élite. Perché non ha nessuna società che sia riuscita a pianificare, costruire e consolidare in modo coerente un ciclo sportivo, con una strategia di mercato intuitiva e finanziariamente sostenibile, con un progetto tecnico chiaro e a lunga scadenza, e con il contributo prezioso del vivaio.
Il mesto congedo di Napoli e Lazio dalle Coppe consegna al calcio italiano un messaggio: senza la rifondazione di un intero sistema, la vittoria nelle competizioni che contano è, al più, un evento casuale e sporadico. Ci eravamo noi stessi illusi che il Napoli di Spalletti potesse andare incontro a questa casualità e sfidarla. Il pareggio di Barcellona sembrava autorizzare l’auspicio che il salto di qualità e di personalità fosse alla portata dello spogliatoio azzurro. Da ieri sera sappiamo che non è così. Certo, si può recriminare sull’assenza a centrocampo – dove il dominio blaugrana è stato decisivo – di due pedine preziose come Lobotka e Anguissa. Si può rimproverare al tecnico l’impiego di un giocatore totalmente inadeguato al livello del confronto, come Demme. Ma l’ampiezza della distanza tra il Barcellona, che pure è quarto nel campionato spagnolo a quindici lunghezze dal Real Madrid, e il Napoli, che invece è in lotta per lo scudetto, è incommensurabile.
Di fronte al pressing alto di Busquets e compagni, il palleggio azzurro è parso subito una ragnatela bucata. La capacità del Barcellona di mobilitarsi all’unisono, ed imprimere al gioco accelerazioni improvvise, ha paralizzato ogni tentativo degli azzurri di trovare spazio tra le line e guadagnare la tre-quarti. Nei primi venticinque minuti di gioco il Napoli non solo ha perso decine di palloni nella sua metà campo, ma ha rischiato di prendere un’infilata di gol, senza riuscire a reagire. Questa subalternità dello spirito ha reso più acuta la fragilità atletica e l’inabitudine al gioco fisico delle competizioni europee, dove gli arbitri fischiano meno della metà dei colleghi italiani, e dove accentuare una caduta con una smorfia di dolore può valere solo un’ammonizione.
Ci resta il campionato. Teniamocelo stretto, perché fuori dai confini nazionali c’è poco da illudersi. Lo ha capito Spalletti, che a tre quarti di gara ha risparmiato la fatica dei novanta minuti a Osimhen, l’unico azzurro che sembra aver compreso che vuol dire, in una gara come quella di ieri, giocare per vincere. È una piacevole eccezione, ma da sola non basta.
Ci piacerebbe che oggi, ritrovandosi dopo i giochetti e i veleni dei giorni scorsi, i venti presidenti della serie A traessero da questo funesto giovedì di Coppa la convinzione che nel loro equilibrio conflittuale, eppure immobile, c’è qualcosa che non va. E che merita di essere messo in discussione con più coraggio fin quanto fin qui s’è visto”. 

Tratto da Cds

 

 

 

 

 

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