Mancavano ancora due anni al magico 5 luglio del 1984. Maradona era un sogno lontano, che nel Napoli non aveva preso ancora forma. La squadra si barcamenava tra alti e bassi, ultima in classifica nel novembre del 1982. Fu quello il mese della morte dello storico presidente-ombra Achille Lauro, protagonista per decenni della storia azzurra. Senza più il suo ingombrante predecessore, Corrado Ferlaino avrebbe dovuto costruire un Napoli competitivo. Ma non era semplice, per le difficoltà finanziarie di quel periodo. Anni lontani, con il calcio condizionato dagli incassi ricavati solo da abbonamenti e biglietti, mentre i diritti televisivi come i corposi contributi per la partecipazione alle coppe internazionali erano ancora di là da venire.
Anni lontani, con una tifoseria variegata e incandescente che a Napoli rendeva tutto più difficile. Una tifoseria, dove molti tra i più accesi e violenti erano personaggi legati ai clan della camorra che avanzavano pretese, facevano arrivare alla società calcistica con sede a via Crispi minacce, pressioni, tentativi di condizionamento. La squadra azzurra, passione interclassista, ma anche strumento di indiretto potere e velleità dei capiclan che l’ostentavano come un simbolo nei quartieri dal controllo criminale. Come la Sanità, uno dei quartieri-Stato dei clan con Forcella e i Quartieri spagnoli, dove la gente si era assuefatta al potere dei gruppi criminali per quieto vivere, paura e anche a volte condivisioni di interessi. Scriveva il giudice Corrado Guglielmucci, nel descrivere queste realtà agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso: «I governati oltre al benessere chiedono – ed hanno sempre chiesto – una direzione ideologica. Questa loro ulteriore domanda è soddisfatta dai ritualismi collettivi posti in circolazione dalla famiglia-governatorato: feste collettive per le assoluzioni giudiziarie, organizzazioni della tifoseria per la squadra di calcio…».
Era chiaro a tutti che in molti club organizzati di tifosi si avvertiva la mano del clan dominante nel quartiere, più potente e rispettato se riusciva a far sentire la propria voce contro chi gestiva la squadra che non dava risultati soddisfacenti. Contro questa realtà paludosa urtò il presidente Ferlaino, che venne ritenuto responsabile di non essere riuscito in 13 anni a far diventare veramente grande la squadra della città. Il 10 ottobre del 1982, alla quinta giornata di campionato si respirava aria di contestazione. Aria pesante, con personaggi non proprio trasparenti che frequentavano le curve dello stadio San Paolo e facevano sentire la propria voce contro la società. La domenica della sconfitta per 1-3 in casa contro la Roma, fu organizzata una clamorosa protesta che costò anche molto denaro. Il promotore fu Alfonso Galeota, commerciante proprietario di un negozio in via Duomo, assai vicino al capoclan del quartiere Sanità, Giuseppe Misso.
LA PROTESTA
Quel giorno, la protesta allo stadio prese forma violenta, con lanci di pietre e danneggiamenti alle tribune, accompagnati da urla e frasi inequivocabili contro il presidente del Napoli. Nel mezzo di un vero e proprio putiferio, nel cielo del San Paolo comparve un aereo che trascinava uno striscione legato alla coda. La scritta era visibile, grande e chiara: “Ferlaino via, torna Juliano”. E mentre lo striscione e l’aereo che lo trascinava volteggiava con insistenza sullo stadio, la gente iniziò a urlare: “Serie B, serie B”. Tutto organizzato, con una regia non improvvisata e dalle spalle forti.
Dieci anni più tardi, Alfonso Galeota terminò la sua esistenza in maniera drammatica e violenta. Tornava da Firenze in auto, insieme con la moglie e altre persone vicine al capoclan Giuseppe Misso, che era detenuto e imputato al processo fiorentino per la strage del rapido 904 Napoli-Milano. Quel giorno, il capoclan era stato assolto dall’accusa di aver consegnato l’esplosivo alla mafia per l’attentato sanguinoso al treno. I killer dei clan di Secondigliano, con cui Misso e il suo gruppo erano in guerra per il contrasto violento in corso, nel suo quartiere, verso la famiglia Vastarella alleata invece del gruppo Licciardi, attesero le auto degli amici e dei familiari di Misso di ritorno dal tribunale di Firenze. All’uscita dell’autostrada a Napoli, l’agguato dalle modalità spietate. I killer bloccarono le auto e inseguirono gli occupanti che ne erano scesi, cercando di salvarsi fuggendo a piedi. Galeota fu trucidato con un colpo di pistola alla testa. La moglie di Misso, Assunta Sarno, fu finita con un colpo di pistola in bocca in segno di disprezzo.
LE BOMBE
Contro Ferlaino le contestazioni non erano finite. La protesta rumorosa e violenta di quella domenica dell’ottobre 1982 accompagnò altri episodi che avevano l’obiettivo di intimidirlo lanciandogli segnali chiari. E, per farlo, la tifoseria vicina ai clan della camorra organizzò azioni più pericolose. Due bombe carta vennero fatte esplodere sotto due luoghi simbolo della squadra: la casa del presidente in corso Vittorio Emanuele e la sede della società azzurra in via Crispi. Ce ne era abbastanza per spingere Ferlaino a defilarsi, per evitare azioni rischi ancora maggiosi con gli azzurri che in quel momento rischiavano la retrocessione in serie B. Le bombe convinsero Ferlaino a mettersi da parte, lasciando la presidenza della squadra all’ingegnere Marino Brancaccio. Era il 17 gennaio del 1983, per quasi tre mesi il clima incandescente e violento nella tifoseria era stato pilotato da personaggi vicini ai clan della camorra. A tenere a bada contestazioni e iniziative più violente, intervenne la mediazione di uno dei capi della tifoseria più ascoltati di quel momento: Crescenzo Chiummariello. A salvare la squadra, intanto, fu chiamato l’allenatore Bruno Pesaola, mentre il presidente Brancaccio chiese all’ex capitano Antonio Juliano, molto amato da tutta la tifoseria, di affiancarlo come dirigente. Le intimidazioni e le pressioni violente avevano colpito nel segno: per un po’ di tempo, Ferlaino scelse di restare nelle retrovie. Non era il caso di esporsi ancora, con una tifoseria diventata incandescente, per la presenza di personaggi legati ai clan della camorra che facevano sentire la propria influenza. Il Napoli si salvò dalla retrocessione e Ferlaino tornò in sella dopo appena quattro mesi. Dopo quelle vicende e ancora un anno di transizione, nel Napoli avrebbe preso corpo un sogno. Nel luglio del 1984, dopo una trattativa avventurosa condotta con il Barcellona, Maradona arrivò in città. Erano passati solo due anni dalle pesanti e pericolose intimidazioni della camorra contro la società e Ferlaino, anche a suon di bombe.
Fonte Gigi di Fiore e foto (Il Mattino)